L’obiettivo era sviluppare un modello di ventilatore polmonare in meno di un mese. Difficile. Anche gli scienziati e i tecnici americani newyorchesi coinvolti nel progetto, all’inizio di marzo, erano scettici. Troppe componenti, troppi dettagli specifici. Ma il coronavirus era alle porte e i suoi effetti erano già evidenti. L’Italia – osservato speciale – era in piena emergenza, i ventilatori in dotazione si erano rivelati insufficienti. Presto sarebbe successo anche lì.
«All’inizio non ero convinto», dirà poi al New York Times Marcel Botha, ceo di 10XBeta, un’azienda di design e sviluppo del prodotto. Anche Scott Cohen, fondatore del New Lab, centro per l’innovazione tecnologica di Brooklyn, non ci credeva. I due però si misero a lavorare.
Si rivolsero al loro network di scienziati, tecnici, ingegneri esperti e imprenditori e, nel giro di un mese, avevano la soluzione. Un ventilatore polmonare “ponte”: uno strumento da impiegare per assistere i pazienti non gravi, evitando di appesantire le terapie intensive standard. Soprattutto, costava un decimo del prezzo.
Quando a metà marzo il sindaco di New York Bill De Blasio riunì il suo staff per cercare una soluzione alla carenza di strumentazione, il progetto di Cohen era già pronto. Il comune di New York non perse tempo: diede 100mila dollari come finanziamento a fondo perso. Poi lanciò la commessa: 10 milioni per acquistarne tremila.
Un piccolo miracolo, si può dire, del New Lab. «Di fatto una start-up è riuscita a ottenere un progresso incredibile in un periodo di tempo brevissimo», ha detto James Patchett, ceo del New York’s City Economic Development Corporation, che ha sostenuto il progetto.
Per Bill De Blasio il ventilatore è «uno strumento preziosissimo», una certezza, anche per fare fronte a una eventuale fase 2 del virus. Di sicuro, è il risultato del lavoro di squadra di ricercatori, scienziati e startup riuniti in un centro dedicato a “coltivare” aziende con tecnologie di frontiera di altissimo valore come il New Lab.
A guardarlo da lontano, come spiega Gianluca Galletto, ex capo del commercio estero di New York ed esperto di innovazione urbana – ha curato anche progetti per la Partnership for New York (la confindustria di New York, per capirsi) e impegnato col MIND di Milano, «potrebbe sembrare un incubatore», ma non lo è.
Piuttosto, è un centro di eccellenza, «un hub dove le aziende ospitate lavorano veramente insieme», in un contesto dove la collaborazione è difficile da attuare. Per esempio, Jump, la startup che si occupa di biciclette elettriche acquisita da Uber, era stata rifiutata ben quattro volte dal New Lab (sì, è quasi come entrare in una università della Ivy League: solo i migliori passano), ma è il frutto del lavoro di quattro startup che si occupano di Intelligenza Artificiale, energia e materiali innovativi.
Chi è dentro,insomma, sono aziende e startup «impegnate nello sviluppo di tecnologie di frontiera», – e, attenzione: il concetto americano di “startup” è diverso da quello italiano: nel New Lab si tratta di un centinaio di aziende che valgono nel complesso 2,5 miliardi di dollari, rappresentando il lato newyorchese dell’innovazione.
Da questo ecosistema, insomma, provengono le competenze e le capacità messe in campo per sviluppare i nuovi ventilatori polmonari. C’è la robotica, l’energia, le nanotecnologie, il tech urbano. Ci sono aziende che collaborano con la Nasa. Altre all’avanguardia per l’Intelligenza Artificiale.
Un motore di innovazione unico dagli spazi enormi «che consentono di sperimentare nel settore hardware» – cioè la manifattura, vocazione tradizionale di Brooklyn, mettendo in condivisione tra più soggetti macchinari complessi e molto costosi, seguendo un modello di business che mescola privato e pubblico, cioè il contributo del Comune di New York e gli interventi delle grandi corporation che si affidano al New Lab per disegnare nuovi prodotti o risolvere problemi.
Chi fosse ancora convinto che il tech in America sia appannaggio della Silicon Valley, dovrà cambiare idea. Anche New York è all’avanguardia. «È un gap concettuale che bisogna colmare», insiste Galletto, che per conto del sindaco di New York ha lavorato anche su questo. Il divario con la Silicon Valley è (quasi) annullato. Ormai non c’è più differenza fra le due realtà, «se si vuole aprire bottega e sviluppare il proprio business in America».
Anzi, «a New York c’è una massa molto più grande e diversificata di clienti finali (una economia cittadina da 850 miliardi, 47 aziende Fortune 500, 7.000 e passa startup). Inoltre è più vicina all’Europa – sei ore contro nove di fuso orario. New York fa oggi 15 miliardi di dollari di investimenti di Venture Capital, mentre San Francisco-North Bay è a quota 19».
Per dare un’idea delle proporzioni, l’Italia arriva a 650 milioni, il Regno Unito 13 miliardi, Germania e Francia circa 7 miliardi. «New York è global leader in fintech, mediatech, adtech, urban tech, AI, e fra i primi anche in life sciences e fashion tech. È al primo posto al mondo per imprenditoria tech femminile».
Per quanto riguarda il New Lab, già la scelta della sede spiega molte cose. È stato ricavato da da un enorme capannone del vecchio Navy Yard di Brooklyn, spazio in cui si costruivano portaerei nella Seconda Guerra Mondiale.
In questi 300 ettari ci sono molti vicini: gli studi cinematografici Steiner-Netflix, altre aziende tecnologiche, di manifattura leggera e tessile speciale, di auto a guida autonoma, un’impresa che segue un progetto pilota per ripololare le coste della città di ostriche e ripulire il mare. C’è il terminale dei ferry metropolitani, una pizzeria italiana che forma ex carcerati e, infine, la più grande urban farm degli USA. Lo spirito innovativo è di casa.
«Un esempio di trasformazione urbana, il simbolo di qualcosa che funziona anche in un momento difficile». La storia dei ventilatori lo illustra bene: quando c’è stato bisogno, i lavoratori del New Lab hanno risposto. «”Vogliamo aiutare”, hanno detto. E lo hanno fatto», portando avanti un modello da conoscere e da esportare.
Per esempio a Milano (perché no?): finora l’unico leader italiano che ha visitato il New Lab, è stato il sindaco Beppe Sala. «È rimasto molto colpito soprattutto dalle aziende che producono wearables, con cui si proteggono le persone durante i lavori fisici pesanti».
Un collegamento tra le due città non sarebbe campato per aria. «Sarebbe importante aprire una subsidiary a Milano», dice Galletto. Ci sono le condizioni industriali per l’innovazione, la città è attraente (sia per viverci che per il business) ed è circondata da un sistema di manifattura che funziona.
«Negli Usa è famosa per la moda e il design», spiega. Ma anche questo «è un gap concettuale, stavolta americano, da colmare».