«Il territorio italiano è troppo urbanizzato a discapito delle aree verdi. Fin dal Dopoguerra tanti, troppi piani urbanistici che prevedevano del verde sono rimasti solo su carta». Sono parole di Michele Talia, presidente dell’Istituto nazionale di urbanistica (Inu) che a Linkiesta spiega necessità di un cambio di paradigma in tema di investimenti green nelle nostre città.
«Nel resto d’Europa, soprattutto in Germania, Olanda, Danimarca, già si ragiona in termini di ecoquartieri, mentre l’Italia è indietro. È un discorso sia di infrastrutture, sia di applicazione delle tecnologie, quindi di monitoraggio della situazione ambientale che il cambiamento climatico quasi ci impone», dice Talia che ha presentato in settimana un piano di interventi necessari per la ripartenza economica del Paese.
Sono tre i principali problemi ambientali delle moderne aree urbane, che si possono limitare aumentando infrastrutture verdi – alberi, piante, prati, aiuole – nelle città: il flash flood (le “bombe d’acqua” che portano inondazioni); l’effetto canyon (la densità urbana che trattiene il calore); e le isole di calore urbano.
Il verde cittadino, oggi, non può più essere considerato soltanto un elemento estetico: migliora le condizioni di vita dei cittadini, combatte l’inquinamento e limita gli effetti negativi del cambiamento climatico. Per questo già nel 2015 l’aumento delle infrastrutture verdi era già previsto dalla “Global agenda council on sustainable development” del World economic forum.
«Ma la riluttanza da parte delle amministrazioni pubbliche a spendere, a investire nel “verde” stona con la crescente consapevolezza dell’importanza di certe aree nelle città, per renderle vivibili e più salutari», spiega Riccardo Valentini, che nel 2007, insieme ad altri scienziati del Comitato Intergovernativo sui Cambiamenti Climatici (Ipcc) è stato insignito del premio Nobel per la Pace.
Da qui il paradosso di un Paese «molto avanzato dal punto di vista della ricerca e dell’innovazione tecnologica, ma che non applica a dovere le sue conoscenze». Valentini parla delle tante nuove scoperte nel settore, compresi quelli che chiama “alberi parlanti”: un sistema di sensori miniaturizzati a basso consumo che vengono applicati agli alberi messo a punto dalla sua startup “Nature 4.0”. Sono sensori in grado di monitorare lo stato di salute degli alberi e dell’ambiente circostante attraverso la raccolta di alcuni dati, ad esempio misurando la quantità di acqua consumata, l’anidride carbonica assorbita, la stabilità dell’albero, il colore delle foglie e altri parametri.
Ma un altro esempio potrebbe essere “i-Tree”, un software semplice e gratuito – progettato negli Stati Uniti, ma applicabile e applicato in tutto il mondo – che fornisce analisi del verde urbano e valutazione dei relativi benefici, anche in termini di risparmio energetico ed economico.
«Non dobbiamo importare nulla – spiega Valentini – né a livello di tecnologie, né a livello di professionalità, ma bisogna cambiare prospettiva e rivalutare le professioni del settore in chiave moderna». Significa ripensare l’idea del verde pubblico come un costo e come un lavoro puramente estetico per le nostre aree urbane.
È un problema di approccio, dice Valentini: «Sappiamo che piantiamo alberi per catturare l’anidride carbonica, però dovremmo sapere anche in maniera scientifica quanta anidride carbonica cattura, di quanti alberi abbiamo bisogno e quali sono i reali effetti benefici, con parametri misurabili. Non si può fare a sensazione. Inoltre l’incuria e la scarsa manutenzione fanno saltare i parametri. Si ha così l’effetto boomerang di una città che anche esteticamente con un bosco degradato, trattato male, scolorito ci perde sotto tutti i punti di vista. Con i segnali che ci sta mandando la natura negli ultimi anni non capisco come possiamo non avere un atteggiamento diverso, più scientifico, nei confronti delle nostre aree verdi».