Abusi e potereIndignazione e domande, cosa rimane dopo aver visto il documentario su Jeffrey Epstein

La produzione arriva a un anno dalla morte, avvenuta in carcere, del miliardario accusato di violenze e molestie sessuali. Una narrazione aggrovigliata che rende bene il senso di oppressione delle sue vittime

Le prime immagini sono quelle di un interrogatorio. In primo piano, sgranato, c’è Jeffrey Epstein, il miliardario americano arrestato nel 2019 per abusi sessuali e morto in cella in circostanze non chiarite.

Si va subito al punto: la prostituzione, i crimini, le molestie. Lui nega, tace, si appella al Quinto Emendamento. È una strategia difensiva normale, ma diventa anche il filo conduttore di tutto il documentario: “Jeffrey Epstein: Filthy Rich” (in italiano diventa “soldi, potere e perversione”), di Lisa Bryant, su Netflix, è un lungo girare intorno al non detto. Al mistero, a domande senza risposta.

Il tutto nonostante le decine di voci che intervengono – quelle di alcune delle sue vittime, degli avvocati, degli amici e soci, lo stesso Epstein – e le lunghe interviste, i servizi di telegiornale, le riflessioni.

Ci si indigna, prima di tutto, ma ci si interroga. Come è possibile che sia avvenuto? Come ha fatto a cavarsela con un patteggiamento nel 2008, quando la polizia aveva identificato 36 ragazze minorenni che sarebbero state abusate da lui?

E prima ancora: come aveva fatto a diventare così ricco, a coltivare le sue amicizie potenti, da Donald Trump a Bill Clinton, passando per Harvey Weinstein fino al principe Andrew? Tutte queste domande finiscono riassunte nella frase di Shawne Rivera, una delle sue vittime, pronunciata nella quarta e ultima parte: «C’era molto di più da dire su di lui, ma non sarà mai detto».

Il documentario arriva a un anno di distanza della morte di Epstein, avvenuta per suicidio (ma c’è chi non ci crede) in una prigione di New York, e segue la falsariga del libro scritto da James Patterson insieme a John Connolly e al giornalista Tim Malloy nel 2016, uno dei contributi più importanti alla questione insieme all’inchiesta del Miami Times-Herald del 2018, che è valsa un Pulitzer.

Al centro della questione mette le voci delle vittime, ragazze abusate, violentate e utilizzate, con ogni probabilità, come esche per ricatti ad altri uomini.

Ma indaga anche sulle storture di un sistema giudiziario che gli permette di farla franca. Al proposito lo stesso Patterson, in occasione del processo a Epstein nel 2019, si era detto indignato: «Questa storia riguarda il collasso della giustizia e il fatto che noi, dal 2006, non vi abbiamo nemmeno prestato attenzione».

Di più il documentario non può fare: cominciato prima ancora dell’arresto, si estende come un lungo lavoro di ricognizione, in una sintesi dell’enorme quantità di materiale raccolto che, a volte, appare poco lineare e disordinata.

È un vortice di informazioni e parole il cui effetto finale somiglia a un nido di vipere: una sensazione di oppressione e paura che – questa sì – sembra riassumere bene la sensazione vissuta dalle sue vittime, incapaci di difendersi e di fuggire.

In mezzo, i suoi silenzi. A ogni testimonianza, riemerge la sua abilità oscura di manipolare le persone, la capacità di far valere denaro e appoggi importanti per sfuggire alla giustizia, l’alone di mistero che lo circondava (perché aveva passaporti falsi?) e infine la forza di un ricattatore che adescava ragazzine – e in questo era aiutato dalla compagna Ghislaine Maxwell, che partecipava alle operazioni – per il proprio piacere personale o, in aggiunta, per intrappolare altre persone.

Anche per tutte queste cose convincere le persone a parlare davanti a una telecamera, ha raccontato la regista Lisa Bryant, «non è stato per niente facile».

Molte di loro non volevano, alcune per la vergogna non ne avevano mai parlato nemmeno con i genitori. Epstein, quando sono state girate molte interviste, era ancora vivo.

Il punto di caduta del documentario è l’arresto finale. Ma va anche oltre, toccando di sfuggita la questione del suicidio e le teorie del complotto che sono subito sorte.

Era inevitabile, da un certo punto di vista, perché crescono proprio dove il non detto è maggiore, tra i buchi delle storie e in mezzo alle questioni irrisolte. Quella di Epstein: sordida, corrotta, violenta e terribile, figura tra queste.

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