Qual è la meraviglia del nostro patrimonio culturale? La risposta è facile: i nostri musei, i nostri siti archeologici, tutto ciò che intendiamo con i termini un po’ “economicisti”, poco fantasiosi, ma efficaci, di beni culturali. Questa è la meraviglia che abbiamo ereditato; ma la meraviglia vera, più grande e più affascinante è quello che possiamo (anzi, dobbiamo) fare con tutta la ricchezza che abbiamo ereditato.
La cultura che abbiamo ereditato, sia essa rappresentata da dipinti o sculture, opere d’ingegno o dell’abilità manuale, serve fondamentalmente a creare cultura, a progredire nella conoscenza: «fatti non foste a viver come bruti» è un invito che non vale solo per i lettori del ‘200, ma è il dna su cui è cresciuto, nei secoli, il nostro paese. Non dobbiamo smettere, non possiamo smettere, di seguire “virtute” e conoscenza.
Alla produzione culturale non si comanda: l’Unione Sovietica aveva creato l’Accademia delle Scienze, con intellettuali stipendiati per produrre opere culturali, ma si ricorda solo Arcipelago Gulag, generato appunto, dall’esperienza del gulag, non dalla sicurezza della vita agiata e sicura dell’Accademia.
Come che sia, su questo la collettività, o la sua proiezione statuale, può far poco, se non quella di apprezzare e comprare le opere migliori, libri, film, decidendo la fortuna dei migliori, nulla di più. La formula su come creare capolavori, se non l’impegno geniale dei singoli, non l’ha ancora inventata nessuno.
Quel che possiamo fare – questo sì – è dare più vita al patrimonio storico-artistico che abbiamo ereditato. Possiamo rimetterlo pienamente dentro la società, cioè aumentare il numero di persone che vi siano toccate (sì toccate, perché un’opera d’arte è tale quando riesce a colpire la mente e il cuore delle persone, sono lì per quello); aumentare il lavoro e l’ingegno che a partire da essi altre persone possono realizzare (le cosiddette imprese creative, su cui, per definirle, si spendono fiumi di inchiostro, ma non altrettanto su come alimentarle); farli entrare nell’economia delle città e del Paese (perché l’economia e produzione culturale sono consustanziate, non opposte, come intende chi della storia dell’arte ha studiato l’avvicendarsi delle prospettive dell’immagine, ma non le circostanze economiche che sono la causa efficiente delle opere prodotte).
Ci sono mille modi, e anche imprevedibili, per rimettere il patrimonio storico-artistico in una nuova vita, ma noi vogliamo essere concreti e fissarne solo alcuni, quelli che dipendono direttamente solo da decisioni pubbliche, perché la produzione di capolavori non è programmabile, ma un contesto nuovo può aiutare molto.
Cominciamo dal sistema museale italiano: è una rete capillare, estremamente importante per la tutela, la diffusione e la valorizzazione della conoscenza. Il termine rete non dice però tutta la verità, perché dobbiamo parlare di alcuni grandi musei-star (gli Istituti Museali Autonomi) e di un numero infinito (o quasi) di piccoli e anche medi musei che non hanno abbastanza visitatori. È piuttosto un sistema dualistico: pochi sono frequentati moltissimo (almeno nell’era pre-covid) e molti sono quasi deserti. Per di più differenziati da una grande eterogeneità di proprietà, amministrativa e gestionale.
Una soluzione, che potrebbe apportare effetti decisivi sulla nostra rete museale, potrebbe essere la realizzazione di uno strumento contrattuale pubblico-privato che, mutuando le principali caratteristiche adottate nei musei di successo, si sviluppi su criteri differenti e, al contempo, garantisca la sostenibilità economica dell’organizzazione privata o del terzo settore che ne curerebbe la valorizzazione.
Si tratta cioè stabilire un contratto in cui un gestore privato o del terzo settore si proponga di raggiungere risultati di interesse collettivo (numero visitatori; iniziative culturali che nascono e si realizzano intorno al museo; coinvolgimento della popolazione residente, legame con la città) e per farlo si assume perciò una quota di rischio, a cui – se saranno bravi – corrisponderà legittimamente una quota di profitto. Ci sono naturalmente molti dettagli da definire, e non irrilevanti, ma qui non c’è o spazio per farlo.
Guardiamo però alle questioni essenziali. Le principali voci di costo per una struttura museale sono: le risorse umane, la manutenzione ordinaria e straordinaria della struttura, la tutela e conservazione delle opere e i costi per la comunicazione, il marketing, i servizi aggiuntivi e per i sistemi tecnologici.
In un mondo equilibrato, le voci per la tutela e conservazione, definite mediante ferrei protocolli, dovranno pesare sul soggetto pubblico, che rimane ovviamente il proprietario e responsabile unico dei beni oggetto del contratto; lo stesso vale per le opere di manutenzione straordinaria (perché il palazzo è spesso pubblico).
Per le risorse umane la questione ha molte sfaccettature: il costo potrebbe pesare sul soggetto che assuma la gestione strategica del museo, ma con libertà di utilizzo, se invece questa libertà non c’è, allora dovrebbe pesare sul committente. È inutile però un modello generale che valga in tutti i casi, meglio affrontare il concreto delle situazioni singole.
Questa rivoluzione manterrebbe intatta la titolarità e la responsabilità della tutela e della conservazione dei beni, che rimane in capo all’autorità pubblica (sovrintendenze), mentre tutto il resto avrebbe una gestione libera, per cui si potranno stabilire prezzi differenziati d’ingresso; orari d’apertura secondo le opportunità della loro localizzazione; iniziative di coinvolgimento della popolazione residente che, detto en passant, visita pochissimo i suoi stessi musei e che potrebbe avere ragioni sempre nuove per frequentarli.
Insomma, i musei che oggi vivono una vita grama, potrebbero riavere vita grazie a nuove gestioni. In questo caso i criteri di scelta del gestore sarebbero correlati a quanta nuova vita (se possiamo dir così) promettono al museo, non ad altri criteri, perché questo è l’obiettivo dell’operazione.
Sui grandi musei è urgente una revisione dell’art bonus, che ha aperto pregevolmente la strada maestra di una possibile attrazione di risorse private. Adesso che la strada è aperta, sulla base di un’esperienza consolidata, possiamo capire meglio cosa bisogna fare per renderla ancora più facile e più efficace.
Una revisione dell’Art Bonus coerente con il suo spirito iniziale consentirebbe di incrementare il numero di soggetti erogatori nonché le somme destinate al patrimonio culturale; estendere gli scopi delle erogazioni anche alla valorizzazione potrebbe comportare la diffusione di progetti innovativi, in cui i cittadini e imprese si possano riconoscere con maggiore enfasi e, combinando queste attività con quanto proposto in termini di “gestione” degli istituti museali, creare un effetto di crowdfunding territoriale che possa portare anche a un maggiore legame tra cittadini e patrimonio culturale.
In sostanza, si tratta di permettere che l’applicazione del credito d’imposta non sia ristretta solo a musei pubblici, come avviene adesso. Si tratta di un’operazione di giustizia: allo stato attuale, cittadini e imprese che possiedono beni culturali sono chiamati a salvaguardare e tutelare il patrimonio. Com’è noto, questo dovere deriva dall’assunzione da parte dell’autorità pubblica che quei beni rappresentano un patrimonio del paese, perciò hanno il dovere di tutelarli e conservarli.
Quindi a tutti gli effetti un museo privato, ad esempio, deve osservare le stesse regole di conservazione e tutela di un museo pubblico, ma non può ricevere contributi privati perché non è un soggetto giuridicamente pubblico. Solo che il suo patrimonio ha tutela pubblica. Una incongruenza senza molto senso.
Inoltre, bisogna togliere alcuni “asterischi” importanti che rendano la contribuzione privata più felice. Bisogna dare la possibilità a chi eroga il contributo di poter incidere sul fine e sulla gestione dei medesimi contributi. Attualmente non è così: il privato eroga, ma non ha potere sulla destinazione dell’erogazione. Si tratta di arrivare, com’è normale, a un accordo tra le parti: qualcuno mette dei soldi e ipso facto deve partecipare alla destinazione e alla modalità con cui i soldi sono spesi. Resta ovvio che il museo pubblico debba condividere. Però l’idea di una separazione netta tra chi eroga e chi riceve non incentiva certo le erogazioni.
Un altro aspetto è quello della gratificazione del soggetto che eroga. Nei musei americani e inglesi, che hanno gestioni formidabili e esemplari, parte del loro potere deriva non solo dalle opere esposte, ma dalla possibilità di sviluppare iniziative grazie alle contribuzioni di famiglie e imprese), soprattutto famiglie, secondo la tradizione di quei paesi. Così vediamo in quei musei una targa che ricorda che quell’opera è stata regalata da un certo benefattore (cioè nome e cognome), o che una intera collezione è stata affidata al museo da una famiglia o che un’impresa ha finanziato un’ala intera del museo. Che male c’è ha dire che qualcuno è stato generoso?
Sono due proposte che possono dare nuova vita al sistema museale italiano, da questi cambiamenti non nasceranno necessariamente dei capolavori, ma la cultura avrà più possibilità di espandersi nel Paese, di essere più viva, di coinvolgere molecolarmente nella società. Questa espansione, alla fine, è la condizione migliore per produrre nuova bellezza. Non siamo solo eredi.