Non puoi sempre avere quello che vuoiRolling Stones contro Trump e tutte le altre dispute politiche sulle canzonette

È un fenomeno antico quanto le elezioni. All’inizio si scrivevano brani apposta, poi si sono usati pezzi già famosi. Per chi è in corsa non importano le visioni ideologiche di chi le scrive: conta il nuovo significato che assume il testo

I Rolling Stones contro Trump, e non solo. A Tulsa, nel comizio di apertura della sua campagna elettorale, il presidente ha fatto suonare “You Can’t Always Get What You Want”: una canzone che ha compiuto 52 anni, dal momento che fu registrata il 16 e 17 novembre 1968, per essere inclusa nell’album del 1969 “Let It Bleed” del 1969.

Inserita dalla rivista Rolling Stone al 100esimo posto nella sua lista delle 500 migliori canzoni di tutti i tempi – che poi va evidentemente intesa nel senso di «500 canzoni più belle che può aver sentito un anglosassone medio di oggi» – secondo una leggenda metropolitana fu ispirata a Mick Jagger e Keith Richards dal barista di un pub a cui avevano chiesto una cherry soda.

Il ragazzo, che era poi uno studente di quella Ball State University di Muncle (Indiana) in cui i Rolling Stones dovevano dare un concerto, disse che purtroppo non avevano ciliegie. «Come è possibile?», fu più o meno la risposta di Jagger. Al che lo studente-barista, il cui nome era John Birkemeier, spiegò: «Non puoi avere sempre quello che vuoi».

Un «You Can’t Always Get What You Want» da cui il leader dei Rolling Stones sarebbe stato folgorato, ispirando appunto la canzone. E imperitura riconoscenza, ogni volta che i Rolling Stones tornano a suonare da quelle parti l’ormai attempato Birkeimer riceverebbe ancora non solo un biglietto gratuito per il concerto, ma addirittura un passaggio in limousine per andare e tornare.

Malgrado la ricchezza di dettagli, non si sa in realtà se la storia sia vera. Comunque il titolo potrebbe essere anche simbolico, a indicare il tipo di reazione che i Rolling Stones hanno avuto con Trump: «Non puoi avere sempre quello che vuoi!».

Oltretutto Donald è recidivo, visto che aveva già usato il brano per la campagna del 2016. Allora la band si era limitata a twittare: «I Rolling Stones non sostengono Trump». Adesso hanno mandato i loro avvocati dalla Bmi, la agenzia che si occupa dei diritti musicali. E l’ordine imperativo è di smetterla, dopo che le precedenti «richieste sono state ignorate».

I media che si stanno occupando della cosa ricordano che anche “I won’t back down” di Tom Petty è stata suonata a Tulsa.

Uscita nel 1989 con un chiaro messaggio di sfida contro forze negative ancorché non nominate, la canzone acquisì negli stati Uniti un forte significato simbolico dopo gli attacchi dell’11 settembre del 2001, quando le radio la mandarono a ripetizione.

Petty diede il suo imprimatur a questa interpretazione, eseguendo a canzone in un telethon successivo agli eventi. Attenzione però che nel 2000 anche George W. Bush aveva provato a usarla.

Non solo Petty gli impose di smetterla, ma andò poi a suonarla a casa di Al Gore. Morto nel 2017 a 66 anni, adesso Petty non può ovviamente obiettare. Ma ci si sono messi i suoi parenti, con un tweet irato: «Non avrebbe mai voluto che una sua canzone fosse usata per una campagna d’odio». Anche loro intimano dunque al Presidente di smetterla.

Il precedente di George W. Bush, comunque, chiarisce che non è stato un problema solo di Trump. Qua va ricordato come addirittura dai tempi di George Washington i candidati alla presidenza degli Stati Uniti hanno sempre accompagnato le loro campagne elettorali con canzoni ad hoc.

Ne dà testimonianza “Presidential Campaign Songs, 1789-1996”: un album del folk-singer Oscar Brand che uscì nel 1999, e che YouTube ci permette oggi di ascoltare dall’inizio alla fine.

Si tratta in effetti di una antologia limitata, perché si limita a una sola canzone per ogni presidente entrato in carica: senza menzione né per i temi dei candidati trombati, né per le diverse campagne di coloro che al contrario furono rieletti più di una volta.

Una lista più completa la riporta Wikipedia. Ma si tratta comunque di ben 43 pezzi. Da “Follow Washington”: «Il giorno è arrivato/ i miei versi corrono/ e segui, segui Washington/ Lui guiderà il cammino, ragazzi/ dove comanda, obbediremo/ attraverso la pioggia e la neve, di notte e di giorno/ retti dalla Libertà, ragazzi/ retti dalla Libertà».

A “Don’t Stop Thinking About Tomorrow” dei Fleetwood Mac, che Bill Clinton convinse a rimettersi assieme dopo il loro scioglimento apposta per accompagnarlo nella sua prima campagna elettorale.

«Non smettere di pensare al domani/ non smettere, presto sarà qui/ sarà meglio di prima/ il passato è andato, il passato è andato». Che però in realtà non era in origine un testo rivolto alla politica, bensì lo sfogo di una donna dopo essere stata piantata dal suo compagno: insomma, un pezzo riciclato.

Proprio l’album di Oscar Brand ci rivela però che la lista delle canzoni scritte su commissione per un candidato si arresta a “Buckle Down with Nixon”: «Ha amici dappertutto/ di qua, di là/ Che cosa questo presidente non farà per te e per me?/ Mettiti sotto con Nixon, mettiti sotto».

Dopodiché i candidati hanno cominciato a servirsi di canzoni già esistenti. Ed è iniziato appunto il problema di autori a cui l’utilizzo non piaceva. La cosa è successa soprattutto con canzoni del testo genericamente «patriottico» che in quanto tali piacevano «a destra», ma erano però di autori «di sinistra».

Mutatis mutandis, come quando da noi Francesco De Gregori chiese all’allora Msi di non usare più il suo “Viva l’Italia”. «La mia Italia è diversa dalla loro», disse a brutto muso.

John McCain, ad esempio, la campagna elettorale del 2008 la aveva iniziata con “Our Country” di John Mellencamp.

Ma l’interprete non gradì e gli intimò di smetterla, permettendo così di far usare il tema a John Edwards. Che però, dopo essere stato candidato alla vicepresidenza nel 2004, in quell’anno si trovò presto staccato da Obama e Hillary Clinton, e fu costretto al ritiro già il 30 dicembre.

McCain arrivò invece a giocarsi la partita finale con Obama usando “Take a chance on me” degli Abba. Il suo complesso preferito e comunque svedesi, quindi con qualche probabilità in più di non piantare storie.

Tra gli outsiders repubblicani da lui superati ci fu Mike Huckabee, pastore battista e allora governatore uscente dell’Arkansas. Anche lui aveva provato a utilizzare “More than a feeling” dei Boston. E anche lui ne era stato bloccato.

L’infortunio capitò perfino al grande Ronald Reagan, che nel 1984 aveva provato a usare “Born in the U.S.A”. Bruce Springsteen disse di no, per offrire in compenso nel 2004 la sua “No surrender” alla campagna di John Kerry.

Brand dunque per Reagan ricorda l’inno della campagna del 1980: “California, Here I Come”, canzone di un musical del 1921 spesso considerata come una sorta di inno non ufficiale dello Stato di cui l’ex-attore era stato governatore.

In compenso nel 1988 George H. W. Bush, il padre, riuscì addirittura a essere eletto sulle note di “This Land is My Land”, di Woody Guthrie: grande folk-singer notoriamente filo-comunista, che sulla sua chitarra aveva scritto «Questa macchina ammazza i fascisti». Ma essendo morto 21 anni prima, non era più in condizioni di protestare.

Tra vari casi di candidati censurati dagli autori di canzoni, ce n’è stato un solo esempio del contrario: un musicista che ha scritto una canzone per sostenere un candidato che gli ha proibito di utilizzarla.

È avvenuto con il rapper Ludacris, che scrisse per la prima campagna di Barack Obama “Politics as Usual”. Ma era talmente zeppa di insulti a Hillary Clinton, George W. Bush e John McCain che Obama ebbe paura di un effetto boomerang, e gli impose di smetterla.

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