Ogni tanto, nella storia del nostro Paese, una parola che ha un significato specifico diventa l’emblema di un’epoca. È il caso del sostantivo femminile “Resilienza” (dal latino resiliens -entis, participio presente di resilire: “rimbalzare”).
Fino a qualche anno fa nessuno ne aveva mai sentito parlare, mentre oggi è una parola talmente di moda che viene addirittura tatuata sulla pelle di molti italiani.
Partiamo dall’inizio. Cosa vuol dire? In estrema sintesi rappresenta la capacità di un materiale di assorbire un urto senza rompersi.
In ecologia e biologia, si legge su Wikipedia, «è la capacità di un materiale di autoripararsi dopo un danno causato da una comunità (o sistema ecologico), di ritornare al suo stato iniziale dopo essere stata sottoposta a una perturbazione che l’ha allontanata da quello stato».
In psicologia sta a indicare la capacità di far fronte in maniera positiva a eventi traumatici, riorganizzando positivamente la propria vita, nonostante le difficoltà, mantenendo la volontà identitaria di restare sensibili alle opportunità che la vita ci offre.
«Sono persone resilienti – si legge ancora su Wikipedia – quelle che, immerse in circostanze avverse, riescono, nonostante tutto e talvolta contro ogni previsione, a fronteggiare efficacemente le contrarietà, a dare nuovo slancio alla propria esistenza e persino a raggiungere mete importanti.»
Negli ultimi decenni possiamo citare tre esempi di stoica resilienza sotto gli occhi di tutti. Quella dei politici italiani di restare incollati alla poltrona, qualsiasi essa sia.
Quella di Silvio Berlusconi di salvarsi il culo ogni volta nei confronti della Magistratura. E quella della famiglia Agnelli di cercare, senza riuscirci mai, di vincere la Champions League con la Juve – i più cattivi aggiungeranno anche la Formula 1 con la Ferrari.
A parte le battute, la resilienza è una supercazzola? Certamente no, perché ci rappresenta alla perfezione.
Mussolini, altro supremo supercazzolaro, in pubblico diceva la supercazzola che quello italiano è un grandissimo popolo e in privato che eravamo «pecore», perché «un popolo che è stato per sedici secoli incudine, non può in pochi anni diventare martello».
Nello specifico, sottolineiamo noi, non è tanto colpa del popolo ma dei suoi vertici, perché i nostri sono stati, nei secoli dei secoli, quasi sempre incapaci di governare quando addirittura non sono stati talmente vili da scappare di notte come ladri di polli: è il caso dei Savoia nella seconda guerra mondiale.
Fino agli anni della “strategia della tensione” e del “muro di gomma” in cui parte dello Stato era il nemico del popolo, che nonostante tutto è riuscito a resistere.
Allora perché la resilienza è una supercazzola? Succede quando diventa una moda, adatta a un tatuaggio sulla spalla, alla stregua di una rosa blu sulla chiappa o di un post da cagata pazzesca su Facebook.
L’italiano è resiliente dalla notte dei tempi e non saperlo ci rende quello che siamo oggi. Un popolo che non conosce la propria storia e che per questo commette sempre gli stessi errori, rimbalzando nello stesso punto mentre il mondo che corre veloce si allontana sempre di più.
da “L’arte della supercazzola”, di Alberto Forchielli e Michele Mengoli, Baldini + Castoldi, 2020, 16 euro