Per un pugno di likePerché ai social network non piace il dissenso

Perfino i siti anonimi e le bacheche che raccolgono il peggio del web non possono fare a meno della logica del gradimento e della dittatura dell’ottimismo

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Facebook è stata e rimane ovviamente al centro di ogni polemica per una serie di ragioni. Storiche, anzitutto. È stata la prima piattaforma sociale a raggiungere determinati numeri in un certo lasso di tempo. Già nel dicembre 2004, per esempio, il sito fondato appena l’anno precedente da un gruppo poi esploso composto da Eduardo Saverin, Andrew McCollum, Dustin Moskoviz e Chris Hughes raggiunse il primo milione di utenti.

Dall’ateneo di Boston, dove tutto era partito, la piattaforma si era allargata prima alle altre università e alla fine aperta a tutti gli utenti. Poi tecnologiche. In precedenza c’erano state altre piattaforme sociali – su tutte MySpace, creata nel 2003 da Tom Anderson e Chris DeWolfe, nei tempi d’oro in Italia si aprivano 4.500 profili al giorno –, nessuno tuttavia aveva saputo estrarre dal cilindro l’intuizione del “newsfeed”, niente meno che la bacheca, e la ricetta segreta – l’algoritmo – che orchestra l’esposizione dei contenuti.

Come abbiamo visto, Facebook ha anche ingoiato FriendFeed e perfezionato il like. Su MySpace, per esempio, si potevano solo commentare gli interventi degli utenti, nella nuova versione ci sono gli immancabili cuoricini. È insomma naturale che vi si faccia riferimento quando si analizzano i paradigmi del settore, le radici di un mondo social in continua evoluzione e che, specie sotto il profilo dell’utenza giovanile e adolescenziale, si appropria a ogni stagione di diversi ecosistemi.

Eppure, anche nelle piattaforme che più lontane non potrebbero apparire, la logica del gradimento, la dittatura dell’ottimismo, il like sotto mentite spoglie non mancano mai. Capita per esempio su TikTok, il social in precedenza noto come Musical.ly controllato dalla cinese ByteDance, dove appunto le clip da 15 secondi pubblicate dai giovanissimi utenti possono essere apprezzate con un cuore.

Non solo: nel sito delle superstar come Iris Ferrari, Elisa Maino e Luciano Spinelli il conteggio dei cuori ricevuti viene esposto in bella vista nel profilo personale dell’utente. Come se costituisse una sorta di titolo distintivo. Tanto che nei casi più eclatanti quel conteggio arriva a cifre inimmaginabili come 408,5 milioni (Ferrari), 519,7 (Maino), e 455,2 (Spinelli). Perfino i siti anonimi, le bacheche considerate a ragione come raccoglitrici del peggio che possa fioccare sul web, non possono fare a meno di mantenere nella loro impalcatura un elemento del genere.

Su ThisCrush, una piattaforma alla quale non occorre registrarsi e dove gli utenti dispongono di un “wall”, un muro dove ognuno può lasciare messaggi in forma anonima, i cuoricini si chiamano invece “Quick Like”, una sorta di pacca, un apprezzamento veloce. Anche in questo caso, il conteggio totale dei “Quick Like” ricevuti è ben esposto sulla pagina principale del profilo, come fossero medaglie al valore conquistate sul campo. Poco importa, in quel caso, da chi arrivino.

La storia del Mi piace su Twitter è invece più articolata. Racconta di una vera e propria crisi d’identità che portò a vette a volte surreali nel novembre 2015. Quando anche il sito di microblogging fondato da Jack Dorsey, che dopo un periodo di assenza era tornato proprio quell’anno alla guida della sua creatura, si è arreso anch’esso al cuoricino. Fino ad allora, infatti, quando un utente apprezzava un tweet pubblicato da qualcun altro poteva segnalarlo con una stellina. Il ruolo di quell’icona era in effetti più da post preferito che da apprezzamento.

Eppure, nella crisi che travolgeva in quel periodo il social network del passerotto celeste, in quella stellina sembrava albergare tutto il terreno perso nei confronti dell’allora arrembante Facebook (che poi, come abbiamo visto, avrebbe avuto i suoi tostissimi problemi).

La ragione di quella débâcle della stellina? Facile: allinearsi a tutte le altre piattaforme e a ogni cultura: «Sono tante le cose che possono piacerti, ma non tutte possono essere le tue preferite. Il cuore, a differenza della stella, è un simbolo universale che ha un significato analogo in tutte le lingue e culture del mondo», scrisse il team di Twitter nel post di presentazione ormai affogato nel dimenticatoio del web.

Non basta: «Il cuore è più eloquente, ti permette di trasmettere una serie di emozioni e di connetterti facilmente con gli altri. E i nostri test hanno dimostrato che la nuova icona piace alle persone». La realtà è che quel tastino “aggiungi ai preferiti” veniva usato per mostrare appunto di apprezzare un determinato tweet. Questo finiva così in una lista dei preferiti, sull’account di chi lo aveva “stellinato”.

L’opzione era nata nel 2006, lo stesso anno di lancio di Twitter, come una specie di segnalibro. Insomma, la stella era bella, da sognatori, ma non si capiva bene cosa dovesse indicare alle mutate sensibilità del nuovo pubblico del web. Il cuore è il cuore, c’è poco da sbagliarsi: vuol dire che un post lo ami, lo apprezzi, che in definitiva ti piace.

Ecco, c’è in fondo sempre il Mi piace nel retroterra di tutte queste mosse: cambia fattezze, modifica le proprie forme, ammalia gli utenti (come dimostrarono i test condotti all’epoca proprio da Twitter, prima del fatidico passo, favorito anche da un’altra app proprietaria, quella Periscope dove i cuori si sprecavano).

Anche su Instagram il travestimento del Mi piace risponde all’appello dell’immancabile cuoricino. Che, per inciso, proprio come il pollicione di Facebook, può corredare anche un singolo commento. Non solo. Proprio come nelle Storie della piattaforma madre, anche nei contenuti effimeri del social fondato da Kevin Systrom e Mike Krieger (entrambi hanno ormai lasciato Menlo Park) si può usare una certa scelta di reaction per commentare un singolo segmento di Storia pubblicato da un utente. In questo caso però like e cuoricini assumono altre forme.

Per esempio un’emoji con gli occhi a forma di cuore, una cifra (“100”, a sottolineare il massimo apprezzamento), le mani impegnate in un applauso, l’immancabile faccina che ride a crepapelle – forse la più usata del mondo, in ogni salsa e su ogni piattaforma – e così via.

Da “Per un pugno di like (perché ai social network non piace il dissenso)” (Città Nuova) di Simone Cosimi, 120 pagine, 15,20 euro

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