Contro i discorsi d’odioLa libertà di espressione è l’unica arma delle minoranze

Intervista alla femminista libertaria statunitense Nadine Strossen, autrice di “Difesa della pornografia” e “Hate”, tra le firmatarie della lettera contro la cancel culture. «La regolamentazione sull’uso delle parole può avere le migliori intenzioni, ma è sempre pericolosa»

Hate. Why We Should Resist It with Free Speech, Not Censorship” (Odio, perché dovremmo combatterlo con la libertà di espressione e non con la censura): chi oggi rilegge il suo ultimo libro, uscito nel 2018 negli Stati Uniti, potrebbe sospettare che Nadine Strossen non sia solo una dei 150 firmatari della lettera pubblicata sulla rivista Harper’s contro la cancel culture, ma ne sia tra i maggiori ispiratori.

Presidente dell’American Civil Liberties Union dal 1991 al 2008, professoressa emerita alla New York School of Law, Strossen è una femminista progressista e libertaria che non ha mai temuto di prendere posizioni pubbliche impopolari – tanto più negli ambienti accademici e giornalistici statunitensi – sempre in difesa della libertà di parola, a suo dire unico strumento per combattere l’odio e dare voce alle minoranze.

In risposta alla campagna puritana che molte femministe americane negli anni Ottanta avevano lanciato contro la pornografia – che consideravano espressione del patriarcato e della violenza sessuale contro le donne – Strossen nel 1995 pubblicò “Difesa della pornografia” (Castelvecchi): un pamphlet tagliente, documentato e capitale, che potrebbe fungere da manifesto e guida anche nel dibattito pubblico attuale sulla libertà di espressione.

Nel suo ultimo libro spiega perché anche la censura contro il cosiddetto “hate speech” – di qualsiasi tipo essa sia: governativa o popolare, accademica o twittarola – è sempre l’anticamera della repressione, uno strumento totalitario intrinsecamente pericoloso, indipendentemente dalle motivazioni di chi al momento la esercita.

Tra le principali critiche che la lettera contro la cancel culture ha ricevuto – per esempio da Billy Bragg sul Guardian o da Hannah Giorgis sull’Atlantic – c’è quella di essere espressione di un ristretto gruppo di privilegiati che non ha mai dovuto affrontare marginalizzazioni e ostacoli per farsi ascoltare e che ora scopre che le sue opinioni possono essere contestate da chiunque abbia un account Twitter. Cosa risponderebbe?
In qualità di persona che insegna e interagisce regolarmente con gli studenti, posso dire di aver firmato con orgoglio la lettera proprio per conto loro e di tutti quelli che non hanno ancora raggiunto posizioni di sicurezza professionale. Sono stata personalmente testimone e sento da loro ciò che anche i sondaggi raccontano: gli studenti hanno paura persino di discutere argomenti importanti e delicati come quelli del razzismo, della violenza sessuale e dell’immigrazione, per timore di essere fraintesi, di dire involontariamente qualcosa che possa essere considerato “insensibile” (o peggio), e di diventare oggetto di azioni punitive – che possono andare dal linciaggio sui social alla perdita di opportunità di lavoro. Per troppi giovani negli Stati Uniti sono state ritirate le ammissioni al college a causa di isolati post sui social pubblicati quando erano adolescenti. In breve, temo per la “cancellazione” delle opportunità future, così come dell’attuale libertà di espressione, proprio in nome delle persone oggi più impotenti e vulnerabili.

La libertà di parola senza alcuna regolamentazione non corre il rischio di portare il dibattito pubblico verso un caos confuso e pericoloso?
Questa domanda riflette l’ipotesi, diffusa ma errata, che abbiamo solo una scelta binaria: o censurare l’“incitamento all’odio” (o altre espressioni controverse, potenzialmente dannose) o lasciarlo completamente non regolato. Non è così. Sia il diritto costituzionale degli Stati Uniti sia quello internazionale sui diritti umani (secondo i trattati delle Nazioni Unite) tracciano una linea ragionevole che distingue il discorso da proteggere da quello da punire. Entrambi i diritti incorporano due principi generali. In primo luogo, in base a quello che di solito viene chiamato il “principio di neutralità del contenuto”, il governo non può limitare la parola solo perché il suo contenuto, cioè il suo messaggio, è considerato sbagliato, malvagio e potenzialmente pericoloso. In secondo luogo, in base a quello che viene spesso chiamato “principio di emergenza”, il governo può limitare la parola quando, nel contesto generale, causa direttamente (o minaccia di causare) determinati danni imminenti specifici e gravi.

Per esempio?
Se l’oratore si rivolge a un pubblico particolare e incita intenzionalmente i membri del pubblico a commettere imminenti violenze o illegalità, qualcosa insomma che è probabile accada, il discorso potrebbe essere punito. Ma se il discorso ha una connessione più indiretta e ipotetica con potenziali violenze o illegalità, ciò non può giustificare la censura.

A volte è impossibile stabilire il confine tra generici discorsi d’odio e un reale e pericoloso incitamento alla violenza.
È vero: anche un discorso che non soddisfa il “principio di emergenza” potrebbe comunque contribuire ad atteggiamenti o comportamenti discriminatori e violenze – tutte cose che deploro profondamente e che vanno punite. Tuttavia, introdurre per questo la possibilità di censurare su una base più libera e non di “imminente pericolo” fa più male che bene, in particolare alle cause della parità dei diritti umani. Nel mio libro del 2018 (a cui ho aggiunto un epilogo incentrato sui social media quest’anno) cito molti difensori dei diritti umani, da molti paesi diversi, che criticano le leggi contro l’incitamento all’odio – o “hate speech” – proprio per questo motivo. Come molti esperti, metto il termine tra virgolette per sottolineare che si tratta di un concetto intrinsecamente soggettivo: il rischio è che cambi di significato a seconda di chi è chiamato ad applicare la legge.

Qualcuno potrebbe dire che un discorso che ferisce l’identità di una persona è già di per sé ingiusto e pericoloso.
Uno standard così flessibile darebbe ai funzionari del governo troppa discrezionalità per punire le opinioni con cui loro stessi o altri detentori del potere non sono d’accordo. Nel corso della storia e in tutto il mondo, questa discrezionalità è sempre stata utilizzata per mettere a tacere in modo sproporzionato le voci delle minoranze e dei dissidenti. Ecco perché Martin Luther King Jr. scrisse la sua famosa “Lettera dalla prigione di Birmingham”. Ed è per questo che alcuni dei più agguerriti sostenitori della libertà di parola siano eminenti difensori dei diritti umani. Ad esempio John Lewis, il leggendario eroe del Movimento per i diritti civili degli Stati Uniti del XX secolo, morto lo scorso 17 luglio, che ha dichiarato: “Senza una solida libertà di espressione, il Movimento per i diritti civili sarebbe stato come un uccello senza ali”.

I primi a dover difendere la libertà di espressione quindi dovrebbero essere le minoranze che oggi spesso si sentono minacciate dai discorsi d’odio?
Sì, perché le restrizioni contro l’hate speech rischiano di mettere a tacere le voci degli stessi gruppi minoritari che avrebbero dovuto proteggere, e questo è un rischio sproporzionato. Una grande coalizione di gruppi statunitensi per i diritti civili, ad esempio, si è più volte lamentata del fatto che gli standard di Facebook contro l’hate speech abbiano spesso censurato contenuti degli attivisti di Black Lives Matter, dei nativi americani contrari ai gasdotti o di altri promotori della giustizia sociale. L’anno scorso, Usa Today ha pubblicato una storia di copertina puntuale sull’argomento.

Internet e i social network tuttavia sono un luogo molto fertile per la crescita e l’autoalimentarsi dell’odio. Qualcuno potrebbe dire che la libertà di parola in generale vada preservata ma sui social sia pericolosa.
Come con tutti i media, i social possono essere utilizzati per scopi positivi o negativi. Non dimentichiamo le molte importanti cause per i diritti umani che non sarebbero potute esistere senza di essi, tra cui Black Lives Matter e Me Too. Sebbene i social media consentano il proliferare di discorsi che incitano all’odio, facilitano anche un contro-discorso efficace, sia attraverso ampie campagne educative sia attraverso scambi mirati con potenziali reclute di organizzazioni estremiste.

Quindi è contraria alla regolamentazione dei discorsi d’odio anche da parte dalle società proprietarie dei social network?
Se è già pericoloso conferire ai governi il potere, intrinsecamente ampio e soggettivo, di definire e punire l’hate speech, è ancora più pericoloso conferire un potere così ampio a gigantesche società non elette che non devono rendere conto a nessuno; le loro decisioni non sono soggette allo stato di diritto e ai vincoli del giusto processo, che frenano il potere del governo. Dato il concetto intrinsecamente vago di hate speech, qualsiasi sua restrizione conferisce a chiunque possa imporla un potere soggettivo che prevedibilmente non verrà esercitato a beneficio di individui e gruppi minoritari e impotenti.

In Italia esiste una legge che punisce la propaganda e i discorsi d’odio fondati su caratteristiche quali nazionalità, etnia e religione. Il Parlamento sta discutendo una legge che, tra le altre cose, aggiunga a queste motivazioni anche l’orientamento sessuale e l’identità di genere. Cosa ne pensa?
Anche molti leader del movimento per i diritti Lgbtq hanno sottolineato che una vigorosa libertà di parola è stata essenziale per la loro causa e che la censura è dannosa, dal momento che il movimento dipende intrinsecamente dall’espressione “uscire allo scoperto” e dall’idea di affermare con orgoglio la propria identità. Ad esempio, un attivista statunitense di lunga data per i diritti Lgbtq, il giornalista Jonathan Rauch, ha affermato che “la libertà di parola è l’unica arma efficace delle minoranze sessuali”. Di conseguenza, credo che il governo italiano dovrebbe mettere al bando e punire la violenza omofobica, ma non i discorsi omofobi che non causino direttamente, o minaccino di causare, danni imminenti specifici e gravi.

Per molti una legge di questo tipo potrebbe essere un utile strumento a difesa delle minoranze Lgbtq nei casi di violenza verbale espressa contro di loro.
Non importa quanto ben motivate possano essere le restrizioni contro l’incitamento all’odio, tutti i precedenti mostrano che esse nel migliore dei casi sono inefficaci e nel peggiore controproducenti per promuovere l’obiettivo che dovrebbe essere di fondamentale importanza – e che condivido con fervore – cioè quello di ridurre l’odio e aumentare l’uguaglianza, la dignità, la diversità e l’inclusione. Questo dipende da diversi fattori, tra gli altri il fatto che la censura – lungi dal sopprimere i messaggi d’odio – in realtà li amplifica. Dai discorsi antisemiti vietati dalle leggi tedesche contro l’incitamento all’odio durante la Repubblica di Weimar, ai neonazisti che spesso accolgono con favore i tentativi di bloccare i loro contenuti online – o “depltaforming”: i seminatori d’odio traggono beneficio dall’attenzione e persino della simpatia che ottengono grazie gli sforzi censori contro di loro, rivendicando il ruolo di “martiri della libertà di espressione”. Le organizzazioni specializzate nel contrastare l’odio – come l’Anti-Defamation League e il Southern Poverty Law Center – per questo motivo sostengono che il modo più efficace per togliere ai seminatori d’odio l’“ossigeno” che cercano sia ignorarli.

A volte ignorare i discorsi d’odio non è sufficiente per contenerli.
Ci sono molte altre strategie non censorie che sono più efficaci della censura nel contrastare i discorsi d’odio. Questi includono l’educazione e l’affermazione di valori positivi a favore dell’uguaglianza e per ridurre le convinzioni discriminatorie; e anche leggi contro comportamenti discriminatori e violenze. In un suo recente rapporto contro il razzismo e l’intolleranza anche la Commissione Europea ha concluso che è molto più efficace il contro-discorso per ridurre la discriminazione rispetto alla censura. Molti ex seminatori d’odio, inclusi i leader di gruppi estremisti, hanno raccontato le strategie educative e di sensibilizzazione che hanno portato alla loro “redenzione”; e hanno affermato che le strategie punitive, inclusa la censura, semplicemente rafforzavano i loro atteggiamenti. Tra le pubblicazioni più recenti su questo tema c’è “Breaking Hate: Confronting the New Culture of Extremism”, scritto da Christian Picciolini, che ha trascorso 10 anni in un gruppo rock estremista che si è esibito sia in Europa sia negli Stati Uniti, prima di venir cambiato da persone che hanno aperto con lui un dialogo con empatia e compassione. Martin Luther King, John Lewis e altri eroi del Movimento per i diritti civili – così come Gandhi e Mandela – credevano e dimostrarono che i processi pacifici e rispettosi di riconciliazione, comprese le scuse e il perdono, sono più potenti non solo delle azioni violente ma anche della retorica violenta. Dovremmo concentrarci sul cambiamento degli atteggiamenti e delle azioni, non delle parole e dei discorsi che, per quanto inquietanti, non raggiungono il “livello di emergenza”. Come ha affermato Nelson Mandela, “Nessuno nasce odiando qualcun altro per il colore della pelle, il suo ambiente sociale o la sua religione. Se alle persone si può insegnare ad odiare, allora sicuramente possono imparare ad amare”.

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