Senza arte non si parteChiusi, aperti a metà o senza personale. La difficile ripresa dei musei italiani dopo la pandemia

Dopo quasi tre mesi dalla fine del lockdown, circa il 30% delle pinacoteche e gallerie nel Paese è ancora chiusa mentre altre hanno ripreso soltanto parzialmente la loro attività per carenza di personale e regole poco chiare sugli accessi. Nella confusione e tra mille difficoltà c’è anche chi prova a reagire

Afp

L’ultima polemica è scoppiata con il Museo Nazionale di Ravenna, uno dei più importanti d’Italia in fatto di arte bizantina: nonostante il governo abbia dato il “via libera” per i luoghi di cultura dopo il lockdown il 20 maggio, il museo ha riaperto a inizio luglio. Ma solo per due giorni a settimana. La ragione? La «carenza d’organico», come ha spiegato laconicamente lo staff museale. A Ravenna come in altri casi, in effetti, ci si trova stretti tra due fuochi: da una parte i concorsi pubblici previsti sono stati sospesi e rinviati a causa dell’emergenza Covid-19, dall’altra mancano i volontari che prima sopperivano ai vuoti d’organico perché ovviamente, con una situazione che continua a essere poco chiara su contagi e sistemi di sicurezza, non garantiscono più le loro attività. Il risultato è che a oggi, dopo quasi tre mesi dalla fine del lockdown, tanti musei sono ancora chiusi e altri hanno ripreso soltanto parzialmente la loro attività.

Si sperava che dati precisi su chi ha riaperto e chi no potessero arrivare direttamente dal ministero dei Beni culturali e invece manca un monitoraggio trasparente, col risultato che ognuno si arrabatta come può, senza un quadro nazionale strutturato e chiaro. «Ed è un problema – spiega Leonardo Bison, attivista del collettivo Mi riconosci? Sono un professionista dei beni culturali – Perché l’effetto è che gli stessi visitatori, nella mancanza di informazioni, finiscono col non andare neanche in quei musei che sono aperti o fanno orario ridotto». Quel che pare, in effetti, è che non ci sia uniformità di direttive. Con tutto quello che ne consegue.

Secondo i dati raccolti a metà luglio dallo stesso collettivo circa il 30% dei musei è ancora chiuso, completamente. In Emilia-Romagna i musei e siti statali ancora chiusi al 12 luglio erano 18 su 26, in Toscana 29 su 52, in Puglia 5 su 16. La situazione a oggi è soltanto lievemente migliorata. A Venezia, per dire, la Torre dell’Orologio è «temporaneamente non visitabile» mentre Casa Goldoni riaprirà solo il 4 settembre, esattamente come la galleria d’arte moderna Ca’ Pesaro che riaprirà addirittura una settimana dopo (l’11), anche a causa dei danni delle alluvioni dello scorso novembre.

Non è un caso che proprio nella città capitale dell’overtourism (in tempi ordinari la Serenissima è visitata ogni anno da oltre 20 milioni di turisti), giorni fa ci sia stata una manifestazione di protesta dei sindacati di categoria. «A Venezia come in altre città i dipendenti sono esasperati perché percepiscono in molti casi solo la cassa integrazione – spiega a Linkiesta Danilo Lelli della Filcams Cgil – Ma non pensiamo che sia solo colpa del Covid-19: siamo davanti certamente a uno tsunami imprevedibile, ma che ha fatto venire al pettine tutti i nodi di un sistema che nella sua struttura non funziona».

Una linea condivisa anche da Bison e dal collettivo Mi riconosci?, secondo cui si rischia ora un’ulteriore precarizzazione dei lavoratori culturali considerando gli orari ridotti di tanti luoghi di cultura. La lista è lunga: la Rocca di Gradara nelle Marche apre solo la mattina; il Museo Nazionale d’Abruzzo garantisce l’attività solo in alcuni giorni della settimana, il Museo di Orsanmichele a Firenze apre solo il sabato con prenotazione obbligatoria e solo in certi orari, mentre Casa Martelli (che fa parte dello stesso circuito museale) ancora risulta temporaneamente chiusa.

Non va meglio a Milano, dove sia il Museo del Novecento che il Civico Archeologico risultano aperti soltanto il sabato e la domenica dalle 11,00 alle 18,00. Dal Nord andiamo al Sud e precisamente a Taranto dove il Marta (il Museo Archeologico della città pugliese) ha riaperto a giugno e garantisce visite solo previa prenotazione e con orari contingentati (15 persone alla volta ogni mezz’ora, per una visita che deve obbligatoriamente durare due ore).

Una situazione spesso indipendente dalle singole strutture che, con personale ridotto, devono far fronte a regole in alcuni casi poco chiare e lacunose, in altri parecchio limitanti. E così, ad esempio, come denunciano ancora le associazioni, al parco archeologico di Paestum sono ammesse 170 persone alla volta «ma si arriva a un’ora e 40 minuti di coda per entrare. Poi un’altra ora di coda per visitare il museo all’interno del parco. E tutto questo nonostante le temperature. La maggior parte dei visitatori se ne va, fa cattive recensioni, inveisce contro il povero personale». Stesso identico scenario a Pompei dove i lavoratori delle società private sono sì tornati al lavoro ma a orari profondamente ridotti, con conseguente riduzione anche della paga, in attesa che venga versato il resto della cig. «Al Colosseo invece – nota ancora Lelli – dei 300 lavoratori una volta attivi, hanno ripreso servizio soltanto in 30».

C’è da dire, però, che tra mille difficoltà c’è anche chi sta provando a reagire. Dopo una partenza a rilento durante la quale garantiva apertura solo tre giorni a settimana, il Museo Egizio di Torino è tornato a orari canonici, pur assicurando la sicurezza dei propri visitatori. Esattamente come il Museo di Capodimonte a Napoli. Come spiega a Linkiesta l’ufficio stampa della struttura, «la fruizione segue un rigido protocollo anti-Covid: obbligo di prenotazione della visita sul sito del concessionario di biglietteria o utilizzando la relativa App gratuita in modo da garantire numeri contingentati e la distanza fisica di sicurezza tra i visitatori. Inoltre sono stati previsti percorsi obbligati nelle sale del Museo».

E poi, ancora, misurazione obbligatoria della temperatura corporea all’ingresso e gel igienizzanti, segnaletica ad hoc, un video-tutorial in accoglienza e informazioni dettagliate sul sito. Il risultato è che «il personale interno di Capodimonte non ha subito contraccolpi: tutto il museo è aperto, anzi per le proprie esigenze risulta spesso sottorganico».

Ma se a Napoli si riesce in un modo o nell’altro a far fronte con le proprie forze, altrove per garantire anche solo l’apertura si è dovuto ricorrere ancora una volta ai volontari. In Molise, ad esempio, il sito archeologico sannita di Pietrabbondante ha riaperto solo a metà luglio grazie a un «accordo di valorizzazione» con il comune che ha fornito due unità del Servizio Civile per dare manforte al personale interno che lavora presso il sito archeologico.

Stessa musica anche a Siracusa, dove la Soprintendenza ha pubblicato proprio recentemente alcuni bandi finalizzati alla ricerca di personale a titolo gratuito da affiancare alla vigilanza per il Castello Maniace, Ipogeo di piazza Duomo e tempio di Apollo, per un arco di tempo che va dal 10 agosto al 31 dicembre 2020. Il fine? Accompagnare i disabili e vigilare per il rispetto delle norme anti-Covid.

«Il continuo ricorso all’esternalizzazione degli ultimi anni – continua ancora Lelli – oggi mostra le sue falle: se oggi le società private sopperiscono con i cassintegrati, domani non è detto che si possa preferire la figura del “volontario” per abbattere ulteriormente i costi. Già oggi sono circa 500mila le persone che tra mondo della cultura e del turismo vengono utilizzate in questo modo».

Dubbi e perplessità che in questi mesi sono stati sollevati al governo e, in particolar modo, al ministero dei Beni culturali, oggi guidato da Dario Franceschini. «Le risposte che abbiamo finora ottenuto ai problemi che abbiamo sottoposto – dice ancora Lelli – sono state vaghe. Le definirei eufemisticamente “interlocutorie”». Stesso copione anche col collettivo Mi riconosci?: «Non abbiamo avuto alcun riscontro dal Mibac neanche dopo il nostro monitoraggio», taglia corto Bison.

C’è da dire che il ministero non è rimasto con le mani in mano. Tanto sono i provvedimenti contenuti nei vari decreti emanati nel corso degli ultimi mesi. In molti casi, però, ancora è da capire come verranno distribuiti i vari finanziamenti. Come nel caso del Fondo Cultura, inserito nel dl Rilancio e «finalizzato a promuovere investimenti in favore del patrimonio culturale materiale e immateriale e aperto alla partecipazione di soggetti privati», come si legge sul sito istituzionale. Peccato però manchi ancora il decreto attuativo che stabilisca «modalità e termini di funzionamento».

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