Il segretario del Partito democratico chiede agli alleati di governo correttivi al taglio dei parlamentari prima del 20 settembre ma, visto com’è andato il precedente accordo, fidarsi dei populisti è come credere ancora alla Befana: il punto 10 del Programma di governo M5S-PD, del settembre 2019, dispone infatti che:
«È necessario inserire, nel primo calendario utile della Camera dei deputati, la riduzione del numero dei parlamentari, avviando contestualmente un percorso per incrementare le opportune garanzie costituzionali e di rappresentanza democratica, assicurando il pluralismo politico e territoriale. In particolare, occorre avviare un percorso di riforma, quanto più possibile condiviso in sede parlamentare, del sistema elettorale. Contestualmente, si rende necessario procedere alla riforma dei requisiti di elettorato attivo e passivo per l’elezione del Senato della Repubblica e della Camera dei deputati, nonché avviare una revisione costituzionale volta a introdurre istituti che assicurino più equilibrio al sistema e che contribuiscano a riavvicinare i cittadini alle Istituzioni».
Nulla di tutto questo è stato realizzato in un anno. Tant’è che il segretario è costretto oggi a chiedere che la questione venga ripresa, tra l’altro in maniera ben più generica rispetto a quanto previsto nell’accordo (e il diavolo, si sa, si nasconde nei dettagli). La legge elettorale non sarà mai approvata prima del 20, al massimo passerà in una commissione parlamentare e ciò non significa nulla. Entro la stessa data non saranno mai approvati i correttivi costituzionali e legislativi né le modifiche regolamentari. L’accordo è stato ampiamente disatteso dal Movimento Cinque Stelle.
Per questo il Partito democratico nella prossima direzione dovrebbe esprimersi per la libertà di voto al Referendum – e non di coscienza, che esiste a prescindere su materia costituzionale – che presuppone che il partito non scelga una posizione e garantisca parità di condizioni a tutte le opzioni.