Daniela Lourdes FalangaLa storia dolorosa del figlio “femminiello” di un boss, ora donna trans celebrata a Venezia

Alla Mostra del Cinema è stato presentato il biopic Red Shoes sul primogenito di un camorrista. Si chiamava Raffaele, oggi Daniela è presidente dell’Arcigay di Napoli e a Linkiesta racconta come ha superato un’infanzia e un'adolescenza non facili

Courtesy of Daniela Falanga

Non nasconde la sua emozione a telefono Daniela Lourdes Falanga, donna transgender e figura di spicco del movimento Lgbti+ italiano, per il docufilm Red Shoes – Il figlio del Boss, che, ispirato alla sua vita e realizzato dalla regista Isabella Weiss, è stato presentato ieri alla 77° edizione della Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia nello spazio dedicato al Festival Cinecibo.

Nato Raffaele a Torre Annunziata (Na) e figlio primogenito di un boss del clan camorristico dei Falanga oggi all’ergastolo, Daniela Lourdes ha vissuto un percorso esistenziale complesso, disseminato di sofferenze e lacrime, per arrivare a essere quella che è oggi: un’attivista per i diritti delle minoranze e prima donna trans a essere stata eletta presidente dello storico circolo di Arcigay Napoli.

Daniela Lourdes, il biopic su di lei è approdato al Festival del Cinema di Venezia. Che cosa ha provato?

Una grande emozione. Non l’avrei mai immaginato. Mesi fa avevo solo colto l’interesse in Isabella Weiss e Raffaela Anastasio, due donne estremamente empatiche, di voler realizzare un prodotto per il bene comune. Due donne, che ho inizialmente conosciuto attraverso lo schermo del pc nel momento drammatico del lockdown. Intanto, la morte di George Floyd aveva infuocato le città americane e tra le strade c’era anche la regista, Isabella Weiss, che attendeva di trovare un volo per venire in Italia e girare il documentario. Nell’attesa ho incontro Raffaela, l’autrice Anastasio. Mi sono subito convinta di essere in ottime mani. Poi, alla fine di luglio, le riprese. Sono stati giorni intensi mentre molti dei miei amici e delle mie amiche erano già via per le vacanze. Una fatica immane, sostenuta con la speranza che il corto potesse arrivare tra i banchi di scuola, dove solo può generarsi e partire la vera rivoluzione del rispetto e degli affetti.

Facciamo un passo indietro. La sua è stata un’infanzia e un’adolescenza non facile con un padre esponente di uno dei clan torresi più tristemente noti…

Ero un ragazzo solo, religioso. Trascorrevo le giornate nell’idea di una scuola per nulla sicura e di una famiglia, in cui il parlare a voce alta era elemento caratterizzante. Durante la notte mi svegliavano spesso le urla di mia nonna materna, affetta da gravi disturbi psichici. Ma anche la preoccupazione che potesse arrivare da un momento all’altro la polizia. E poi il pensiero costante di una morte che era sempre all’agguato e che a volte desideravo, ma non riuscivo a infliggermi. Trascorrevo i giorni nei tempi dilatati delle attese, dove il vivere era da me percepito come il cessare d’esistere. Sperimentavo inoltre la reverenziale curiosità degli adulti per essere il figlio di uomo temuto e quella dei ragazzini, che invece osservavano qualcosa fuori da quei ruoli e quelle espressioni che definivano l’uomo come da loro concepito. Per loro ero insomma il ricchione, il femminiello, qualsiasi altra cosa per silenziarmi in classe o farmi smettere di giocare. Mi sentivo un osservatore del mondo, spesso dietro a una finestra, dove guardavo la bellezza della libertà.

Qual era la giornata tipo nella casa del boss Falanga? Quale il ricordo che le è più rimasto impresso?

Trascorrevo solo il sabato e la domenica a casa di mia nonna paterna, la grande villa di famiglia, composta di vari appartamenti, dove mio padre viveva con un’altra donna. Sin da piccolissimo ero obbligato da mia madre a trascorrere quei due giorni con mio padre, perché ne dovevo ereditare ogni cosa: dalla maschilità agli immobili. Era tutto molto sfarzoso, eccessivamente sfarzoso. C’era cibo ovunque, giocattoli costosissimi subito rotti. Poi i momenti in cui sentivo urlare o vedevo schiaffeggiare qualcuno. Di solito tutto ciò avveniva all’improvviso, senza che niente mi facesse intuire che il silenzio o lo sguardo potessero essere interrotti dalla violenza. Per questo mi nascondevo. Di solito, nonostante i lauti banchetti a pranzo e a cena, mangiavo pochissimo. Ricordo con grande dolore un cucciolo di tigre tenuto in gabbia. Lo scoprii mentre giocavo, mentre scrutavo in una fessura di un muro per cercare mio padre. Perché nella parte di casa, in cui viveva, era negato l’ingresso al figlio bastardo. In quella gabbia c’ero in realtà anch’io. E lì sono stata relegata per anni.

Che cosa l’ha spinta a intraprendere il percorso di transizione e come l’ha vissuto? 

Non sapevo che i miei pensieri, le mie fantasie, la mia autenticità potessero trovare una concretizzazione. Finche una sera,́ durante una puntata del Maurizio Costanzo Show, vidi Eva Robin’s, che dichiarà̀ di non essere un “ermafrodito” ma una donna trans e di essere diventata in quel modo attraverso l’assunzione di ormoni. All’epoca non c’era internet né si potevano trovare in articoli di giornali spiegazione su come si svolgessero i percorsi di transizione. Ricordo solo che corsi in camera di mia madre e mi guardai allo specchio. Ero sconvolta, mi toccai il volto, iniziai a sentire per la prima volta il mio corpo respirare. Attesi qualche mese prima di riuscire ad avere le giuste informazioni e le ebbi attraverso un’altra puntata del Maurizio Costanzo Show: fu intervistato un uomo trans, che lasciò il suo numero di telefono. Non fu dunque la mia una decisione. Improvvisamente seppi di poter diventare ciò che ero. Non so se si può intuire la devastante felicita che provai: ero devastata e felice allo stesso tempo.

E il nome di Daniela Lourdes?

Ero molto religiosa e non avevo un vero padre accanto a me. Uno, il mio, lo guardavo amare le proprie figlie e i nipoti, mentre io restavo seduto a guardare le sue braccia sollevarli in aria. L’altro era il secondo compagno di mamma, poi ucciso con un proiettile che gli oltrepassò la testa. L’unico Padre, dunque, era quello che incontravo nelle preghiere, nei miei silenzi, nel dolore lacerante del mio esistere. Non potevo giocare, non potevo ascoltare la musica, non potevo ballare: tutto ciò era ritenuto femminile. Ma coi pensieri potevo fare ogni cosa. Anche guardare dalla finestra le ragazze giocare e immaginarmi con loro come anche avere un padre, quello degli orfani, quello di tutti: Dio. Poi l’esperienza drammatica di essere cacciata dalla mia chiesa parrocchiale mentre ci si preparava a provare i canti pasquali. I momenti che seguirono furono devastanti. Tutto questo è alla base del mio nome d’elezione; Daniela fu scelto perché ne conoscevo il significato, cioè “Dio è il mio giudice”. Lourdes, invece, perché nel corridoio d’ospedale, in cui fui trasportata d’urgenza per una complicazione dopo l’operazione di vaginoplastica, vedevo scorrermi davanti agli occhi una statua della Madonna di Lourdes, alla quale chiesi di salvarmi.

Qual è attualmente il rapporto con suo padre e sua madre: si è riavvicinata a loro oppure no?

Con mia madre si è risolto tutto. Lei fu anche coraggiosa e tenace nell’affrontare l’uomo, col quale viveva, per fare in modo che tutti mi “accettassero”. È stato tutto molto lento e non facile. Oggi lei nemmeno lo ricorda più. È come se avesse voluto rimuovere ogni passaggio infelice di allora. Ho riabbracciato invece mio padre in una scuola napoletana dopo più di 25 anni che non lo vedevo. Era il 21 dicembre 2018. Ero stata appena eletta presidente del comitato Antinoo Arcigay di Napoli e, quel giorno, ero relatrice per un evento sulla violenza di genere all’Itc Ferdinando Galiani. Lui era lì, insieme a una compagnia teatrale di Rebibbia, per interpretare, da attore, la parte di un uomo violento e pentito. Fu assurdo: difficile esprimere l’indicibile. Fu un momento particolarmente sentito da chiunque era presente.

Lei ha accennato al suo ruolo di presidente di Arcigay Napoli: che cosa significa per lei? 

Antinoo Arcigay Napoli è il più grande impegno della mia vita, la responsabilità più grande prima che ne fossi la presidente. Ne sono arrivata alla guida dopo 35 anni di trazione al maschile. Ma, soprattutto, dopo la presidenza dell’attuale segretario politico, Antonello Sannino, che aveva sollevato insieme a noi la necessità di cambiare radicalmente e nei fatti una dimensione univoca di regole e ruoli. Antonello era arrivato ad assegnare al comitato salernitano, di cui era stato precedentemente presidente, il nome della storica attivista trans Marcella Di Folco.

Essere la presidente di uno dei comitati più longevi e operativi d’Italia come donna e come donna trans mi inorgoglisce profondamente e mi rende ancora più responsabile di un attivismo fuori schema. Un attivismo fatto però di concretezza estrema, che  si traduce in lavoro nelle carceri o negli incontri con 6000 studenti all’anno nonché con tante persone negli ospedali e nelle aziende: il tutto per garantire esistenze felici.

Oltre all’attivismo come si svolge la giornata di Daniela Lourdes?

Oggi lavoro per il Centro d’Ateneo SInAPSI, nell’ambito dell’Asl Napoli 3 Sud, presso il Consultorio InConTra dove, grazie all’incontro con Giusy Di Lorenzo, donna di grande sensibilità e professionalità, e a un progetto da me scritto, si è realizzata un’esperienza che accoglie decine di uomini e donne trans e persone non binarie al mese, anche minori, insieme con le famiglie, che sono accompagnare “gratuitamente” verso il desiderio agognato della libertà. Uno spazio importante, che nasce dall’incontro dei saperi del terzo settore e degli enti pubblici sanitari. Primo in Italia totalmente gratuito. Si lavora tanto. La mia vita si svolge, dunque, tra volontariato e attivismo. Poi la sera, anche molto tardi, si ritorna nelle mura di casa: là sperimento la gioia di ritrovare il mio amore, Ilario; la gioia delle cose semplici, come annaffiare il giardino o ritrovare i propri gattini.

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