America first, Europe secondJoe Biden potrebbe essere un buon alleato dell’Ue, ma gli Stati membri dovranno fare la loro parte

Se il candidato democratico batterà il suo rivale alla Casa Bianca, si riapriranno i rapporti tra Bruxelles e Washington e il multilateralismo schiacciato da Donald Trump. Ma gli interessi geopolitici degli Stati Uniti costringeranno l’Unione a impegnarsi in prima persona per rivendicare il proprio ruolo

(Photo by Adrian Dennis / AFP)

Non è un mistero: l’Ue tifa Joe Biden, a tutti i livelli. Sia le élite che la maggioranza dei cittadini sperano che sia l’ex vice-presidente di Barack Obama a trionfare alle elezioni presidenziali Usa del prossimo tre novembre.

Pur senza abbandonare il consueto gergo diplomatico, lo ha ammesso, tra gli altri, il vice-presidente della Commissione europea Valdis Dombrovskis, che a inizio mese ha affermato: «Con una nuova amministrazione le relazioni commerciali tra Ue e Usa saranno più facili».

Un sentimento condiviso dalla gran parte della popolazione europea. Il sito EuropeElects ha messo in fila alcuni sondaggi condotti nei paesi Ue: si delinea un sostegno per Biden pressoché unanime, con percentuali schiaccianti. Auspicano il successo di Biden il 71% dei tedeschi, l’83% degli austriaci, il 69% degli spagnoli, il 64% dei francesi e anche il 61% dei britannici. L’Italia registra un supporto notevole per il presidente uscente (20%), ma lo sfidante democratico è saldamente il favorito (58%). Unica eccezione tra gli Stati censiti la Polonia, dove Trump (41%) surclassa Biden (15%).

Il favore che autorità e opinione pubblica europee accordano a Joe Biden è comprensibile. In questi quattro anni Trump ha picconato le istituzioni multilaterali, frustrato gli alleati tradizionali e scudisciato l’Unione a suon di dazi. Aspettarsi che un cambio di guardia equivalga a un cambio di rotta e riporti la sintonia tra le due sponde dell’Atlantico è legittimo. E in molti campi, probabilmente, accadrà.

Biden ha espresso la volontà di riportare gli Usa nell’alveo del multilateralismo, riaderendo alle istituzioni da cui l’amministrazione Trump ha ritirato – o annunciato di voler ritirare – gli States, come Organizzazione mondiale della sanità, Unesco e Commissione Onu sui diritti umani, e riesumando accordi internazionali come quello di Parigi sul clima, abbandonato dalla Casa Bianca nel 2018.

Se il senatore del Delaware oggi fosse un europarlamentare, lo si troverebbe tra gli scranni del Partito socialista europeo (Pes) più prossimi a quelli dei Verdi. Proprio sul cambiamento climatico, la visione del candidato democratico e quella di partiti europeisti e Commissione europea collimano infatti perfettamente. Biden sembra aver fatto proprie le istanze della fazione più ambientalista della base democratica americana, quella riunita intorno a figure come Alexandria Ocasio-Cortez, Elizabeth Warren e Bernie Sanders.

Con Bruxelles il navigato politico americano condivide anche la condanna delle derive illiberali di Polonia e Ungheria, che ha recentemente definito “regimi totalitari”. Si può facilmente ipotizzare che le costituende autocrazie dell’Europa centro-orientale troverebbero in Biden un critico molto più fermo, con un’attitudine agli antipodi dell’accondiscenza, mista a volte ad ammirazione, mostrata da Trump.

Anche le divergenze sul piano commerciale che separano i due partner transatlantici potrebbero venir affrontate da Biden con un piglio più cooperativo e meno brutale rispetto a quello adottato da The Donald, interessato principalmente a coltivare il proprio consenso interno anche a costo di auto-sabotare la politica estera americana. A fine settembre un consigliere del candidato democratico garantiva che una futura presidenza Biden avrebbe «interrotto l’artificiosa guerra commerciale scatenata da Trump» e «lavorato costruttivamente per compensare gli squilibri, per esempio nel settore agricolo».

Tali divergenze, comunque, sono state esacerbate da Trump, non create ex novo. Gli europei esportano oltreoceano molto più di quanto importino. La bilancia pende così nettamente a favore dell’Ue, che anche l’anno scorso ha segnato un surplus commerciale di 153 miliardi di euro. L’elettorato e il tessuto produttivo Usa paiono sempre meno disponibili a tollerare questo squilibrio e chiunque sieda alla Casa Bianca dovrà confrontarsi con queste rimostranze.

Un altro dossier di vitale importanza per gli europei (orientali), la relazione con la Russia, è uno dei rebus più indecifrabili tra quelli prodotti dal quadriennio Trump. Durante la campagna elettorale per le elezioni del 2016, il tycoon aveva promesso una distensione con Mosca, salvo poi perseguire una politica ondivaga e altalenante anche in questo ambito, intervallando amorevoli conferenze stampa congiunte con Putin a tweet bellicosi. Adombrato da questioni più urgenti, come pandemia, crisi economica e competizione con la Cina, in questa campagna il tema è stato pressoché assente. Non è dunque possibile pronosticare come si muoverebbe Biden qualora entrasse al civico 1600 di Pennsylvania Avenue a Washington DC. Ciò che è certo è che erediterebbe una situazione compromessa.

Se la retorica muscolare e alcune azioni inedite come la riduzione delle truppe statunitensi stanziate in Germania hanno guadagnato a Trump la simpatia di alcuni Stati dell’Europa centro-orientale, in primis la Polonia, la scelta di sovrapporre così smaccatamente l’interesse nazionale Usa alla tutela dei propri interessi (economici e politici) personali ha inquietato gli Stati più sensibili alla minaccia russa. Il caso più significativo è stato la pressione esercitata sul presidente ucraino Volodymyr Zelensky affinché indagasse sul server mail di Hillary Clinton, che secondo alcune ricostruzioni complottiste si sarebbe trovato in Ucraina, e sulla condotta di Biden nel periodo in cui il figlio Hunther sedeva nel board della compagnia energetica ucraina Burisma. In quel momento gli Usa stavano procrastinando l’invio di una tranche di aiuti economici del valore di centinaia di milioni di dollari, ritardo che lasciò supporre che tali aiuti avrebbero potuto essere congelati qualora Zelensky si fosse dimostrato poco collaborativo.

Anche sul dossier russo, pare probabile che Biden riaffermerà i capisaldi della politica estera del secondo mandato di Obama, quindi sostegno incondizionato a Kiev, contrasto alle ingerenze di Mosca e centralità della Nato.

Se, complessivamente, ci sono quindi buone ragioni per supporre che sotto la sua eventuale presidenza gli Usa tornerebbero a essere più amichevoli, prevedibili e inclusivi con l’Ue rispetto a quanto vissuto con Trump, questa prospettiva idilliaca stride con alcuni dati di fatto che suggeriscono come nemmeno Biden si allineerebbe completamente alla versione Ue, e non solo in ambito commerciale. Su alcuni temi non potrà farlo, se non con estrema difficoltà, su altri probabilmente proprio non vorrà farlo. Il mandato di Trump non potrà semplicemente venire archiviato per poi passare oltre. Lascerà alcune eredità ingombranti e inaggirabili. Innanzitutto, lo sgradevole sospetto che la diplomazia sia solo un foglio di carta senza valore.

L’amministrazione Trump ha infatti instillato nei partner un dubbio esistenziale: ci si può davvero fidare di Washington, ovvero del garante supremo della solidità del diritto internazionale? Dalla fine della Guerra fredda fino al 2016 la convinzione che interessi nazionali Usa e interessi degli alleati coincidessero o potessero perlomeno convergere era parsa incrollabile. In questi quattro anni, gli alleati degli Usa, europei in primis, hanno invece imparato a confrontarsi con l’idea di non poter più contare su Washington. Quella comoda illusione è evaporata, come riassunto nel celebre tweet di Donald Tusk, all’epoca presidente del Consiglio europeo: «Con amici del genere, chi ha bisogno di nemici […] abbiamo capito che quando ci serve una mano, la troveremo solo nel nostro braccio».

Uscite trumpiane come «perché dovremmo morire per il Montenegro?» hanno infatti sostanziato l’ipotesi che, per esempio, la Nato possa esimersi dal difendere i propri membri da attacchi esterni, contravvenendo all’obbligo iscritto nei trattati. Per Stati particolarmente esposti alle mire di Russia e, sempre più, Cina uno scenario simile rappresenta un incubo. La loro sicurezza dipende in toto dal fatto che i marines Usa siano pronti ad accorrere al loro fianco: l’azzeramento di questo deterrente potrebbe galvanizzare i rivali strategici di Ue e Usa, incentivandone le ambizioni.

Il discredito della diplomazia pregiudica la firma di intese future, bilaterali e multilaterali. Perché la dirigenza di qualunque Stato dovrebbe sprecare capitale politico e risorse economiche in estenuanti trattative il cui frutto potrebbe venir semplicemente cancellato da un’alzata d’ingegno presa nello Studio Ovale?

L’esempio più eloquente è la vicenda del Joint Comprehensive Plan of Action (Jcpoa), l’accordo sul nucleare con l’Iran siglato nel 2015. I primi contatti tra Teheran e il gruppo EU3 (Francia, Regno Unito e Germania) iniziarono nel 2003, ma la firma arrivò soltanto dodici anni più tardi. Tanto ci volle per individuare una soluzione soddisfacente per tutti gli attori seduti al tavolo (Iran, EU3, Cina, Russia, Ue ed Usa).

Quando l’8 maggio del 2018 Trump ha annunciato l’intenzione di ritirare Washington dall’accordo, nonostante tutti i report compilati dall’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica (Aiea) confermassero che l’Iran stava ottemperando agli impegni presi, ha indirettamente sbriciolato il pilastro portante del diritto internazionale: il presupposto, fino a quel punto dato per incontrovertibile, che i contraenti siano vincolati a rispettare il contratto. Avanzando un progetto di legge (nazionale) che contraddice quanto stabilito nell’accordo (internazionale) con l’Ue, seppur «in un modo molto specifico e limitato», il premier britannico Boris Johnson si è prontamente adeguato al nuovo corso.

La presidenza Trump ha così scavato un solco, infliggendo un vulnus letale al sistema multilaterale, che incomberà su tutti i prossimi inquilini della Casa Bianca. Questo per quanto riguarda il modus operandi, la grammatica delle relazioni internazionali. Ma l’eredità di Trump è densa anche in termini di contenuti. Impossibilitato a restaurare lo status quo ante, Biden dovrà confrontarsi con vari fait accompli. Molti dei quali gli andranno più che bene, a partire dal dossier più incalzante: la Cina.

Lo scontro sino-americano è la dinamica geopolitica cardinale della nostra epoca, non una bizza di Trump. Il presidente repubblicano l’ha declinata in una micidiale guerra dei dazi, corredata da una virulenta retorica anticinese che lo ha spinto a etichettare il coronavirus come “virus cinese”. Chi verrà dopo di lui, la settimana prossima o nel 2024, potrà cambiare narrazione, adottare altre tattiche, corteggiare l’adesione volontaria dei partner, tuttavia non potrà trasformare questa montante conflittualità in una cordiale interazione commerciale.

L’economia è difatti solo il campo di battaglia più manifesto dove già duellano l’egemone mondiale e il suo sfidante asiatico. L’asse Washington-Pechino resterà incandescente, a prescindere dall’esito delle elezioni del 3 novembre. È inverosimile che Biden devii sensibilmente dalla politica del predecessore, come infatti gli sconsigliano di fare anche osservatori di tendenza democratica. Un esempio su tutti, la diatriba su Huawei, la più recente incarnazione di questo conflitto planetario, non svanirà con il successo dei democratici. L’Ue sarà chiamata ad adeguarsi, scegliendo un fronte e agendo di conseguenza.

Una logica simile vale per i risultati conseguiti dalle forzature di Trump, per esempio sul versante Nato. Anche se ancora solo 9 Paesi raggiungono la soglia prevista dai trattati come quota da investire nella difesa (2% del pil), tutti i membri dell’Alleanza atlantica – Usa inclusi – hanno incrementato la propria spesa militare rispetto agli anni scorsi, piegandosi alle minacce del presidente americano. Da qui non si torna indietro, nemmeno se a Washington si insediasse un pacifista – e Biden non lo è.

Il frutto più controverso della presidenza Trump è però l’assetto mediorientale. In questi quattro anni ha prevalso la linea dei falchi filo-israeliani, rappresentati dal genero di Trump Jared Kushner, che hanno incalzato la Casa Bianca a prendere decisioni epocali, come il trasferimento dell’ambasciata Usa da Tel-Aviv a Gerusalemme, e patrocinato accordi prima impensabili tra Israele e Stati arabi – a oggi Emirati Arabi Uniti, Bahrein e Sudan.

Per perseguire l’obiettivo ultimo, stringere l’Iran nella morsa di un fronte compattamente filo-americano (e filo-israeliano), la Casa Bianca si è dimostrata pronta a ignorare completamente la tenuta sul lungo termine dei precari equilibri regionali, così come le rimostranze dei palestinesi. Un trionfo della realpolitik di corto respiro sulla retorica dell’interventismo umanitario, mantenuta almeno come scenografia fino all’avvento di Trump. La normalizzazione dei rapporti tra Israele e i paesi arabi è un punto di non ritorno. Gerusalemme e l’influente lobby ebraica Usa non permetteranno un’alterazione di questa nuova normalità.

Se eletto, Joe Biden sarà, insomma, il presidente degli Stati Uniti e, come tutti i predecessori anteporrà gli interessi americani a quelli di qualunque alleato. A Trump il merito di essere stato il primo a squarciare questo velo di Maya, costringendo l’Ue a uscire dalla propria intorpidita adolescenza. Scelgano i 27 se questa sia una buona o una cattiva notizia.

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