Al di là del giusto o dello sbagliato, c’è una tendenza socio culturale che ha riempito pagine e pagine e talvolta torna alla ribalta per quella o per quell’altra azione, per quella o l’altra polemica. Si parla di monumenti storici, di persone o di aziende. Cancel culture, letteralmente significa cultura della cancellazione. Cancellare, ovvero eliminare parti di un passato o di un presente ora diventato troppo scomodo. Il dibattito che ne è scaturito ogni tanto si accende e si infiamma.
Dobbiamo guardare al passato con i canoni del presente o guardare al passato con i canoni del passato?
Lo abbiamo visto con le statue, rimosse o danneggiate. I social media hanno dato alle persone comuni un modo per parlare a quelle società e istituzioni che in passato sarebbe stato difficile se non impossibile raggiungere. Ma se quello che è stato ed è successo (e non si può eliminare a posteriori), dovremmo cancellarlo? Eliminare un evento non equivale a eliminare la storia o parte di essa? La cancel culture non è solo una questione di monumenti. Si applica anche al pensiero. Riduttivo, tra l’altro, guardare alla cancel culture come a qualcosa che riguardi destra e sinistra, anche se riferirsi alla cancel culture è anche un modo per la destra di denunciare una cancellazione o una censura da parte della sinistra. Non si limita a questo; il fenomeno è più complesso e merita un approfondimento.
L’arte, la vita, l’opinione: tutto può cambiare e tutto può essere cancellato. E un eroe di questa epoca può diventare un tiranno in quella successiva. A volte si mira a contrastare il passato, altre volte è proprio il presente che si mira a eliminare. Alla tendenza a eliminare opinioni, opere, monumenti legati a chi ha una posizione diversa e spesso considerata inaccettabile. Tuttavia, ciò che è inaccettabile per una persona può essere accettabile per un’altra e viceversa. Tutto, a questo mondo, è soggettivo.
Il 7 luglio 2020, una lettera aperta apparsa su Harper’s Magazine diventava famosa. L’avevano firmata 150 intellettuali, da Margaret Atwood a JK Rowling, a Noam Chomsky. Nella lettera si sosteneva che la cultura dell’annullamento avesse creato un «clima intollerante» e avesse indebolito «le norme del dibattito aperto». Molti – ohibò, che apertura di pensiero – hanno tolto la loro firma dalla lettera, dopo aver visto i nomi di alcune delle altre persone che condividevano l’appello.
Dopo la lettera, precisamente a settembre, è uscito un libro di JK Rowling. Scritto sotto il nome di Robert Galbraith, uno pseudonimo molto utilizzato dall’autrice, il libro ha suscitato poi polemiche e j’accuse. Il protagonista del libro è un serial killer transessuale, Dennis Creed. “Troubled blood”, questo il titolo, può essere una provocazione, un’espressione di libertà di pensiero oppure può non essere niente, solo una storia. Qui, le critiche sono arrivate a causa delle posizioni pro-famiglia della Rowling, spesso considerate transfobiche e controverse sull’identità di genere. Jake Kerridge, giornalista del Telegraph, ha ricondotto i contenuti del libro della Rowling a questa frase: «Non fidarti mai di un uomo travestito». Celebri alle cronache infatti i tweet della Rowling, come quello del 19 dicembre 2019, in cui difendeva Maya Forstater, licenziata dal centro studi di Londra dove lavorava a causa delle sue posizioni contro le persone transgender. Sulla Rowling, amatissima per il mago Harry Potter, c’è un dibattito che dura da parecchio tempo.
La nascita della cancel culture si può far coincidere con la nascita del movimento MeToo, quando giustamente è stato scoperchiato un vaso di Pandora relativo a molestie sessuali nel mondo del cinema dello spettacolo. Ciò ha innescato una reazione a catena. Da Harvey Weinstein si è passati ad altri personaggi, come Kevin Spacey. La cancel culture è continuata in tempi moderni, soprattutto con l’affermarsi del movimento Black Lives Matter, dopo l’omicidio di George Floyd e dopo che ci si è resi conto delle ingiustizie commesse dalla polizia nei confronti degli afroamericani.
In Italia c’è stato il caso Montanelli. Ora, in America, è tornato alla ribalta il caso di Cristoforo Colombo. Trump ha elogiato Colombo nel discorso del Columbus day del 12 ottobre, in Messico buttano giù le statue. Diverse sono le città americane che si sono autoproclamate “Columbus Day Free” e il giorno di Cristoforo Colombo è diventato l’Indigenous People day.
Qualche giorno fa, una statua di Junípero Serra, santo patrono della California, missionario considerato simbolo del colonialismo, è stata rovesciata a San Rafael in occasione del Indigenous People day.
La questione è molto controversa. Può essere un errore guardare al passato con gli occhi del presente. Carlo Magno non era certo uno zuccherino; il Colosseo era un posto dove gli schiavi soffrivano.
Certo, abbattere una statua è un gesto irrazionale, probabilmente liberatorio.
Riguardo al presente, la cancel culture si rivolge a opinioni e opere. Quello che accade è che le opinioni e i gesti causano spesso non solo una rimozione della stessa opinione o gesto in sé, ma che la persona interessata venga attaccata cosi duramente che si trovi in difficoltà nell’esprimere nuovamente un’opinione o che venga rimossa persino dal posto di lavoro. Ma tutta questa cultura della cancellazione non farà diventare ogni idea che va controcorrente una minaccia? Converrà ancora cercare di esprimere un’opinione che va contro il sentire comune? I critici della cancel culture pensano che sia come permettere che una folla inferocita decida il destino di un individuo. E questo, da un lato, soffoca la libertà di parola, impedendo alle persone di esprimere opinioni per paura di essere attaccate personalmente. Si generano processi sommari prima ancora che avvenga una verifica dei fatti, ci si dimentica (ancora una volta) che si è innocenti fino a prova contraria.
Ma se il termine cancel culture non è facilmente definibile, è perché questo vocabolo contiene diverse sfumature. Dalla gogna social su Twitter, alla mancata pubblicazione di un libro, al licenziamento, alla rimozione di statue, alla rimozione di eventi come il Columbus Day, l’ombrello della cancel culture è troppo ampio per essere riassunto in un spazio di due parole. Anche le aziende non sono immuni dalle conseguenze finanziarie della “cultura dell’annullamento”.
Quando l’annullamento della cultura prende di mira un’azienda, non ci sono solo critiche da affrontare, ma anche la minaccia che i consumatori smettano di acquistare i loro prodotti. Una sorta di boicottaggio.
È il caso, ad esempio, del marchio alimentare Goya Foods. Il delegato della società, Robert Unanue, aveva partecipato a un evento alla Casa Bianca sostenendo Trump e c’era stato sui social un invito a non acquistare i suoi prodotti.
Si cancellano anche filosofi; il nome dell’edificio David Hume dell’Università di Edimburgo a settembre ha cambiato nome. Il libro “A proposito di niente” di Woody Allen non aveva trovato una casa editrice in America (l’Hachette aveva rifiutato la pubblicazione a causa delle accuse verso Allen), in Italia ci ha pensato la nave di Teseo. Immaginiamo fosse successo negli anni ’90. Impensabile.
C’è gente che perde il lavoro. Basta ricordarsi di James Bennet, l’ex direttore editoriale del New York Times, dimessosi dopo il caso provocato da un controverso e violento articolo apparso nella sezione opinioni del giornale a firma del senatore Repubblicano Tom Cotton. Articolo che Bennet aveva pubblicato.
Obama, all’Obama Foundation summit nel 2019, aveva detto che la cancel culture non è attivismo. Aveva aggiunto di aver avuto la sensazione che alcuni giovani pensassero che essere il più «giudicanti possibili» fosse il modo migliore per forzare il cambiamento. «Le persone che fanno cose davvero buone hanno dei difetti. Le persone con cui stai combattendo potrebbero amare i loro figli e condividere alcune cose con te», aveva detto.
Alla fine, in ogni essere umano, il bene e il male sono mescolati insieme. Non c’è mai un discorso binario. Un’opinione anche sgradevole è solo un altro specchio dei fatti. Nulla è netto.
Un grande scrittore/scrittrice o un grande compositore/compositrice, un grande scienziato/scienziata o un grande artista non è necessariamente un individuo retto e senza macchia. Una persona giusta potrebbe aver fatto tantissime cose sbagliate.