Come molti miei coetanei, mi addormento abbastanza presto. Mi sveglio spesso durante la notte e resto sdraiato al buio, assalito dai ricordi.
La notte scorsa, molto tardi, mi è tornata in mente un’immagine di mia madre. Ho rivisto me stesso a tre anni: giocavo sul pavimento della cucina mentre lei preparava il pasto dello shabbath.
Nata in un villaggio ebraico alla periferia di Brest Litovsk, era rimasta fedele alle sue tradizioni. Ero il minore di cinque figli ed ero felicissimo quando eravamo soli. Quando mi passava accanto, allungavo la mano e le toccavo le dita nude dei piedi, e lei mi arruffava i capelli mormorando parole affettuose.
Mi ha ripetuto diverse volte che sono nato all’alba dell’11 luglio 1930, dopo un travaglio lungo e doloroso. Il giorno del mio ottantasettesimo compleanno mi sono svegliato allo spuntare del sole e ho ricordato il suo viso come l’avevo visto mentre accendeva le candele dello shabbath e recitava la Berakhà: «Benedetto sei Tu, o Signore, nostro Dio, Re dell’universo».
Nella mia mente ha preso forma una fantasticheria sulla benedizione laica concessa a me e ai miei studenti dalla letteratura più alta, da Omero e dalla Bibbia ebraica, passando per Dante e Chaucer, fino a Shakespeare, Cervantes, Montaigne, Milton e alla tradizione della letteratura occidentale che culmina in Proust e Joyce.
Il significato originale della condizione di essere benedetti era essere favoriti da Dio. Siccome non condivido la fiducia di mia madre nel patto di Yahvè con il mio popolo, molto tempo fa ho trasformato la benedizione nella sua forma principale, cioè l’amore per gli altri.
Mi sono dedicato alla lettura e allo studio della letteratura in cerca della benedizione, perché sono arrivato a capire che non riusciamo ad amare un numero sufficiente di persone. Loro muoiono e noi restiamo. La letteratura è diventata, per me e per molti altri, uno strumento fondamentale per riempire noi stessi della benedizione che dà più vita.
Secondo la mia traduzione, la Berakhà significa «più vita in un tempo senza confini».
John Ruskin osserva: «La vera ricchezza è la vita». La presenza di Yahvè è dichiarata dal suo nome misterioso. Quando Mosè chiede quale sia questo nome, Dio risponde: «Ehyeh asher ehyeh», che la Bibbia traduce con «IO SONO COLUI CHE SONO». Io lo rendo con «sarò presente ovunque e in qualunque momento scelga di essere presente». Ma cos’è la presenza? La scambiamo per carisma o per eccezionale compostezza. All’inizio, presenza significava «essere vicino», ma l’originale latino è passato attraverso il francese antico, diventando l’inglese presence.
La letteratura occidentale distingue tra la presenza o l’assenza di Dio nel mondo naturale e la presenza di Dio tra gli uomini e le donne o, quel che è più importante, in ciascuno di noi.
Dopo aver fatto il docente per tutta la vita, associo la presenza alla presentazione o all’esibizione che fa parte del processo di insegnamento. Per come lo pratico da sessantatré anni, il lavoro dell’insegnante consiste nell’infondere allo studente il senso della sua presenza. Il verbo to teach – «insegnare», appunto – viene dal tedesco attraverso l’inglese antico e ci riporta alla radice indoeuropea nel greco attico per «mostrare» e nel latino per «dire». Che cosa c’entra tutto questo con la benedizione?
Nella Genesi, la benedizione di Yahvè passa da una generazione del popolo eletto all’altra. Tra i suoi favoriti, le personalità più notevoli sono Giacobbe, che diventa Israele, e Davide, che sostituisce Saul come re e genera Salomone con Betsabea.
Giacobbe è un uomo vecchio stampo, astuto e tenace nel suo impulso alla sopravvivenza e alla benedizione di Yahvè. Davide è qualcosa di nuovo e, nella letteratura, la sua progenie comprende Gesù, come lo conosciamo nel Vangelo di Marco, e Amleto.
Il commento più illuminante sul Giacobbe dello Jahvista si trova in un capolavoro comico ora tristemente dimenticato, “Giuseppe e i suoi fratelli” di Thomas Mann, scritto tra il 1926 e il 1942, con una splendida traduzione inglese di John E. Woods (2005). Ne faccio un resoconto nel mio volumetto “The Shadow of a Great Rock” (2011) e qui mi limiterò solo a qualche osservazione.
Mentre in altri punti della Bibbia ebraica la Benedizione (d’ora in poi userò l’iniziale maiuscola) è semplicemente «che tu possa essere fecondo e avere molti discendenti», nei testi scritti dallo Jahvista la interpreto come la promessa che il proprio nome continuerà a vivere nella memoria degli altri e dunque non si sparpaglierà.
Giacobbe esce dal ventre materno stringendo in mano il calcagno del fratello Esaù, che diventerà un cacciatore mentre lui risiederà nelle tende. La madre Rebecca ama Giacobbe, mentre suo marito Isacco preferisce Esaù. In una scena dal pathos straordinario, mescolato con una punta di comicità, Giacobbe inganna Isacco convincendolo a dargli la benedizione di Esaù. Le conseguenze sono inquietanti e memorabili:
Gli disse suo padre Isacco: «Chi sei tu?». Rispose: «Io sono il tuo figlio primogenito, Esaù». Allora Isacco fu colto da un fortissimo tremito e disse: «Chi era dunque colui che ha preso la selvaggina e me l’ha portata? Io ho mangiato tutto prima che tu giungessi, poi l’ho benedetto e benedetto resterà». Quando Esaù sentì le parole di suo padre, scoppiò in alte, amarissime grida. Disse a suo padre: «Benedici anche me, padre mio!». Rispose: «È venuto tuo fratello con inganno e ha carpito la benedizione che spettava a te». Riprese: «Forse perché si chiama Giacobbe mi ha soppiantato già due volte? Già ha carpito la mia primogenitura ed ecco ora ha carpito la mia benedizione!». E soggiunse: «Non hai forse in serbo qualche benedizione per me?». Isacco rispose e disse a Esaù: «Ecco, io l’ho costituito tuo signore e gli ho dato come servi tutti i suoi fratelli; l’ho provveduto di frumento e di mosto; ora, per te, che cosa mai potrei fare, figlio mio?».
Gen 27,32-37
La nostra comprensione per Giacobbe si rinnova soltanto nel capitolo successivo, quando sogna una scala tra il cielo e la terra, con angeli che salgono e scendono. Yahvè, in cima alla scala, riconferma la Benedizione.
Un’epifania ancora più grandiosa ha luogo nel capitolo 32, con la visione infinitamente feconda di Giacobbe che lotta con un Elohim anonimo:
Durante quella notte egli si alzò, prese le due mogli, le due schiave, i suoi undici bambini e passò il guado dello Iabbok. Li prese, fece loro passare il torrente e portò di là anche tutti i suoi averi. Giacobbe rimase solo e un uomo lottò con lui fino allo spuntare dell’aurora. Vedendo che non riusciva a vincerlo, lo colpì all’articolazione del femore e l’articolazione del femore di Giacobbe si slogò, mentre continuava a lottare con lui. Quello disse: «Lasciami andare, perché è spuntata l’aurora». Giacobbe rispose: «Non ti lascerò, se non mi avrai benedetto!». Gli domandò: «Come ti chiami?». Rispose: «Giacobbe». Riprese: «Non ti chiamerai più Giacobbe, ma Israele, perché hai combattuto con Dio e con gli uomini e hai vinto!». Giacobbe allora gli chiese: «Svelami il tuo nome». Gli rispose: «Perché mi chiedi il nome?». E qui lo benedisse. Allora Giacobbe chiamò quel luogo Penuèl: «Davvero – disse – ho visto Dio faccia a faccia, eppure la mia vita è rimasta salva». Spuntava il sole, quando Giacobbe passò Penuèl e zoppicava all’anca.
Gen 32,23:32
Nella Bibbia ebraica, «un uomo» è «uno tra gli Elohim». È l’angelo della morte o Yahvè stesso a interpretare questo ruolo? Non lo sappiamo.
L’incontro, però, non è amorevole. L’anonimo teme l’alba, e da quel momento in avanti Giacobbe zoppicherà. A sorprenderci è il fatto che Giacobbe, forte soltanto nella sua astuzia, dovrebbe avere la forza di immobilizzare un angelo pericoloso. Traduco il nome che riceve, Israele, come «lottare con l’Onnipotente».
Giacobbe sa che poco dopo l’alba dovrà affrontare Esaù, il suo vendicativo fratello. In questa eccezionale prolessi si fortifica per l’incontro, prolungando così la propria sopravvivenza.
Medito fin da bambino su questo agone di Israele con l’angelo della morte. Lo interpreto non solo come un’allegoria della storia ebraica – anzi, della storia universale –, ma anche come la storia della mia vita e di quella di tutti coloro che ho conosciuto, amato, istruito e pianto.
Nella penombra della mia incessante insonnia notturna, inizio a immaginarla come la lotta di ogni lettore solitario per trovare ciò che basta nella letteratura più alta.
da “Posseduto dalla memoria La luce interiore della critica”, di Harold Bloom, Rizzoli, 2020