«Al presidente del Consiglio e i ministri Roberto Gualtieri e Stefano Patuanelli ho chiesto di rendere comprensibile la motivazione del nuovo dpcm e perché vengono fermate alcune attività in particolare, attività che da questi provvedimenti vengono terribilmente danneggiate». Lo ha detto a Linkiesta il segretario nazionale di Confartigianato Cesare Fumagalli poco dopo la videoconferenza a cui hanno partecipato il governo e le categorie penalizzate dal dpcm del 24 ottobre.
La richiesta di maggiore chiarezza da parte di Fumagalli dà voce a migliaia di aziende che sono costrette a chiudere prima o che vedranno le loro attività fortemente limitate, e che adesso chiedono un indennizzo adeguato. «Il governo deve spiegare soprattutto due cose – dice il segretario di Confartigianato – cioè deve dare evidenza delle misure prese, perché non c’è niente di più frustrante che fare sacrifici e non sapere il motivo; e deve dimostrare che questo sacrificio viene ripagato con un sussidio immediato e proporzionato al danno. Fuori da questo perimetro è difficile da accettare».
Alcuni segmenti dell’economia italiana riescono ancora ad ammortizzare i danni: «Non è vero che le imprese più grandi resistono meglio. In Italia, ma anche in Europa, la diffusione di un sistema reticolare di piccole imprese di territorio si sta dimostrando un’opportunità di resilienza del mercato perché spesso sono a carattere familiare, spesso si tira avanti anche se non conviene più perché è l’unica forma di sostentamento possibile, e magari c’è un legame particolare tra dipendenti e imprenditori, quindi rappresentano un presidio rispetto a grandi tracolli, è un punto di forza», spiega Fumagalli.
La vocazione italiana alla micro e piccola impresa è diventato, ancor di più nel 2020, un asset strategico. Soprattutto nel settore manifatturiero: in Italia le micro imprese attive con meno di 10 addetti sono poco più di 4 milioni, pari al 94,9 per cento del totale delle imprese attive non agricole. E gli occupati delle micro imprese con meno di 10 addetti sono 7 milioni e mezzo, pari al 43,7 per cento del totale degli addetti delle imprese non agricole.
Complessivamente le imprese con meno di 50 addetti registrano poco più di 11 milioni di occupati, pari al 64 per cento del totale. Non a caso l’Italia è il primo Paese dell’Unione europea per occupati nelle micro e piccole imprese manifatturiere.
Inevitabilmente, però, la riduzione dei consumi, il cambiamento delle abitudini di lavoro – come l’incremento dello smartworking – e la chiusura anticipata di bar, ristoranti, pub e altri esercizi commerciali, impatta su tutta la filiera di produzione del valore.
«Si può fare un esempio semplice partendo dallo smartworking e la mancanza di riunioni e incontri in presenza. Se non si usano più i taxi, se non si va al bar a prendere il caffè in pausa, se non si pranza al ristorante, frena tutta la filiera, dalla produzione al consumatore. Per questo ieri abbiamo chiesto al governo proprio che nel decreto Ristori tengano conto di tutta la filiera», dice Fumagalli.
Tutte le attività interrotte o frenate dal decreto, infatti, rallenteranno il mercato. I dati forniti da Confcommercio Milano riguardo il numero di occupati dei settori colpiti dal dpcm aiuta ad inquadrare l’argomento: ci sono oltre un 1,2 milioni di occupati solo nella ristorazione, a cui si sommano circa i 200mila delle attività artistiche, sportive, di intrattenimento e divertimento e i 14mila dei centri per il benessere fisici. Per un totale di quasi un milione e mezzo di occupati nel solo capoluogo lombardo.
Parlando con Linkiesta il segretario generale di Unione Confcommercio Milano Marco Barbieri stima una perdita di 59 milioni di euro al mese tra bar e pub che solitamente lavorano fino a notte inoltrata, a cui vanno sommati gli 83 milioni dei ristoranti e i 13 milioni dei centri commerciali. Numeri che sommano l’impatto del dpcm e dell’ordinanza regionale sul coprifuoco.
«Sono misure durissime che mettono in difficoltà un tessuto economico cittadino già indebolito dal precedente lockdown. Una nostra recente indagine racconta che un’impresa su tre sta pensando di chiudere entro il 31 dicembre. E l’86 per cento considera i sussidi stanziati dallo Stato inutili in quanto troppo esigui per aiutare aziende che sono state chiuse per qualche mese», dice il segretario Barbieri, che alle istituzioni richiede il già citato ristoro compatibile con quel che si sta attualmente perdendo lavorando meno.
Poi aggiunge: «Per quale motivo non si riesce a far rispettare regole semplici come distanziamento e mascherina, ma si sceglie il percorso più dannoso? Se il problema è non riuscire a presidiare il territorio per far rispettare le regole la soluzione non può essere chiudere le imprese, ma potenziare i controlli. Si fa un decreto legge ogni giorno, ne basterebbe uno per facilitare la formazione di persone che faccia rispettare le regole, faccia multe e quant’altro».
Intanto le imprese italiane vivono queste settimane anche come un momento di transizione, in cui abituarsi a una convivenza lunga con il virus. Un dato evidente è la diffusione dell’ecommerce e, in generale, la digitalizzazione dell’azienda.
Nei documenti forniti a Linkiesta da Confartigianato si legge che «il maggiore utilizzo del canale digitale da parte delle imprese e la crescita dei volumi di commercio elettronico durante i mesi della crisi covid-19 hanno creato nuove opportunità per le imprese digitali, bilanciando il calo di domanda determinato dalla recessione».
Una trasformazione che era iniziata già in primavera, ma procede soprattutto guidata dall’inventiva dei singoli imprenditori, che cercano vie alternative per semplificare consegne a domicilio, asporto, ecommerce, e modalità di produzione e vendita differenti.
Anche le micro e piccole imprese hanno registrato profondi cambiamenti, affiancati da un maggiore utilizzo delle tecnologie digitali finalizzati a contrastare una caduta dei ricavi senza precedenti.
«Nei mesi della crisi – si legge nel report di Confartigianato – il 19,9 per cento delle micro e piccole imprese ha introdotto o diffuso lo smart working e il 29,7 per cento delle micro e piccole imprese ha utilizzato canali alternativi di vendita, intensificando l’utilizzo del canale digitale, con 122 mila micro e piccole imprese in più che hanno utilizzato l’e-commerce. Tra marzo e luglio 2020 le vendite del commercio elettronico sono salite del 31,9 per cento rispetto un anno prima a fronte di una diminuzione del 12,9 per cento delle vendite al dettaglio».
Inevitabilmente gli investimenti digitali imprese modellano la domanda di lavoro, anche nelle micro e piccole imprese. Nel 2019 per il 58,6 per cento delle entrate previste – nuovi rapporti di lavoro dipendenti e indipendenti – nelle micro e piccole imprese sono richieste competenze digitali, come l’uso di tecnologie internet, e la capacità di gestire e produrre strumenti di comunicazione visiva e multimediale; per il 51,2 per cento delle entrate è richiesta la capacità di utilizzare linguaggi e metodi matematici e informatici per organizzare e valutare informazioni qualitative e quantitative ed infine nel 36,0 per cento delle entrate viene richiesta capacità di gestire soluzioni innovative nell’ambito di impresa 4.0, applicando tecnologie robotiche, big data analytics, internet of things ai processi aziendali.
Inoltre le micro e piccole imprese della manifattura italiana sono protagoniste anche sui mercati esteri. Il peso del loro export diretto vale 3,5 per cento punti di Pil (60,1 miliardi di euro), il doppio rispetto alla media dell’Unione europea e superiore a quello dei maggiori competitor: in Spagna le esportazioni delle MPI valgono il 2,0 per cento del Pil (23,4 miliardi), in Germania lo 0,9 (30,4 miliardi), e in Francia lo 0,6 (12,7 miliardi).
Il segretario di Confartigianato Cesare Fumagalli spiega che «oggi tante filiere di produzione, dall’automotive alla moda, sono transnazionali. Allora tutti questi provvedimenti nazionali sono inadeguati: o finiscono per alterare i rapporti di mercato tra le parti, o le differenze negli aiuti creano in qualche modo forme di dumping. Finalmente il fatto che ci siano strumenti finanziari con debito pubblico europeo, anche se non è proprio la definizione corretta, aiuta ad adeguare gli aiuti a quei mercati che non conoscono le frontiere. I vari fondi Sure e Next Generation Eu dovrebbero aiutare molto, in questo senso».