Il 23 settembre 2020 potrebbe essere una data spartiacque nella storia europea. La Commissione europea ha proposto per la prima volta di superare il Trattato di Dublino sull’immigrazione e l’asilo, firmato nel 2003, con un nuovo patto. L’intervento, diventato essenziale dopo il caso del campo profughi di Moria, era stato già annunciato dalla presidente della Commissione Ursula von der Leyen nel suo discorso sullo Stato dell’Unione: «salvare vite in mare non è un optional. E quei paesi che adempiono i loro doveri legali e morali o sono più esposti di altri devono poter contare sulla solidarietà di tutta la nostra Unione europea. Tutti devono intervenire qui e assumersi la responsabilità». Quello che propone la Commissione e che ora dovrà superare l’approvazione del Consiglio Europeo (un’impresa non facile vista la probabile resistenza di Paesi come l’Ungheria) e del Parlamento prevede che:
- Ogni Paese membro dovrà contribuire alla gestione dei richiedenti asilo, accettandone una quota o finanziando i rimpatri;
- Venga identificato chiunque si presenti alla frontiera europea in modo irregolare;
- Venga accelerato l’esame delle domande alla frontiera;
- Venga adottato in situazioni di eccezionalità un nuovo schema di responsabilità e solidarietà.
A questi punti la Commissione aggiunge ovviamente una forte raccomandazione agli Stati membri di non criminalizzare i salvataggi in mare di esseri umani e di rafforzare la lotta al traffico di migranti, un fenomeno molto presente lungo le due rotte più frequentate, quella balcanica e quella mediterranea e dove spesso i diritti umani vengono sistematicamente ignorati.
«I centri dove sono detenuti i migranti nei Balcani ne sono la prova. A questa mancanza di diritti umani si aggiungono spesso i respingimenti violenti e illegali, violenze e traumi psicologici perpetrati dalla polizia ai confini esterni dell’Unione Europea» racconta Barbara Bécares, volontaria e responsabile della comunicazione di No Name Kitchen, ONG presente in Grecia, in Bosnia e a Melilla, in Spagna, e che si occupa dell’assistenza di queste persone.
Lei, come gli altri volontari, sono testimoni privilegiati di “The Game”, il tentativo dei migranti di raggiungere un Paese europeo dove assicurarsi una vita migliore. «Nei Balcani è difficile trovarla: in Grecia la nuova politica migratoria varata dal governo Mitsotakis ha bloccato gli asili per tutti coloro che entrano nel Paese, prevendo in molti casi la deportazione senza assistenza».
Un caso che riguarderebbe più di 12 mila persone che, secondo i dati dell’Unhcr, avrebbero cercato di raggiungere il Paese nel solo anno 2020. Negli altri Paesi della regione la storia non cambia però visto che «in Paesi come Albania, Montenegro, Bosnia e Serbia gli asili concessi ogni anno sono molto pochi. Così le persone cercano di raggiungere Paesi come Romania, Ungheria, Slovenia o Croazia ma vengono sistematicamente respinte». In che modo lo raccontano i report del Border Violence Monitoring Network al quale vanno aggiunti anche i casi di Italia ed Austria.
Per molte famiglie questi sono viaggi di fortuna, che significano anche 15 o 20 giorni di cammino nelle foreste, lungo un percorso spesso accidentato. L’esito è spesso scontato e si conclude con il respingimento da parte della polizia che significa un ritorno alla casella di partenza, in Bosnia o in Serbia dove le persone sono spesso bloccate da tre anni o più. Qui, secondo i dati dell’Organizzazione Internazionale della Migrazione sarebbero bloccati la maggior parte dei 200 mila migranti stimati nella regione nel 2019.
Le loro storie sono spesso incredibili. «Pochi giorni fa abbiamo incontrato una famiglia il cui figlio, un bambino, è da solo in un centro per minori della Croazia. Mentre tentavano di entrare nell’Unione Europea questa famiglia ha cominciato a sentirsi male a causa della mancanza di acqua e il ragazzo è intervenuto in loro soccorso ma è stato scoperto dalla polizia. Lui è rimasto in Croazia ma la famiglia è stata obbligata dalla polizia a tornare in Bosnia. Purtroppo, non c’è la possibilità di ricongiungerli».
Una storia che spesso fa il paio con quelle provenienti dai centri dove sono detenuti, con condizioni spesso precarie. Come in Bosnia Erzegovina «dove le autorità locali di Bihac sono arrivate a interrompere l’approvvigionamento idrico del vicino campo migranti di Vucjak per costringere il governo a spostare i migranti». Un centro posizionato in un punto non felice, visto che sorge sul sito di una ex discarica tossica, a poca distanza da un campo di mine risalente alla guerra jugoslava degli anni ’90. In questo quadro viene quasi scontato chiedersi: la nuova proposta europea di riforma del trattato di Dublino cambierà la situazione sulla rotta balcanica? «Io credo di no, non ci sono e continueranno a non esserci sistemi legali o sicuri per le persone per ottenere una richiesta di asilo e poter viaggiare in maniera tranquilla e libera. Perciò sulla rotta balcanica non cambierà niente: le persone continueranno il loro viaggio per affrontare “The Game”».