Aveva compiuto da poco 90 anni, lo scorso agosto. Sean Connery si è spento nella sua villa sull’isola New Providence, alle Bahamas, dove viveva da 30 anni insieme alla seconda moglie, la pittrice francese Micheline de Roquebrune. Lo ha annunciato il suo unico figlio, Jason: secondo le voci che si rincorrevano era malato da tempo. Le Bahamas erano diventate il suo buen retiro. Qui poteva dismettere i panni del divo, girare senza scorta e tornare a essere un uomo libero. Poteva anche godersi una sorta di esilio dai riflettori, dato che il suo addio al cinema, reso ufficiale in una serie di interviste dal 2006 in poi, non era stato sereno. Connery era scontento del flop del suo ultimo film, “La leggenda degli uomini straordinari”, e ne contestava tutta la gestione. Non riceveva proposte che giudicava all’altezza del suo talento e, soprattutto, della sua carriera. In generale, non era più convinto dell’ambiente, delle idee e delle persone che circolavano nell’industria: «Sono stufo di quegli idioti», aveva detto in un’intervista, denunciando «la distanza sempre più ampia tra chi sa come si fanno i film e quelli che li autorizzano». Romperà il suo isolamento solo per prestare la voce – è stato di parola: solo audio – per la versione in videogioco di “Dalla Russia con amore” e per un corto, “Sir Billi The Vet”, del 2012, che divenne poi un film. La sua era una fuga dal cinema, dopo che lo stesso cinema gli aveva dato tanto. Lo aveva sollevato dalle umili origini di Edinburgo, dove era nato nel 1930, figlio di un operaio e di una lavandaia. Soprattutto, gli aveva permesso, grazie alle prime particine ottenute nel 1953 (un musical, dove incontra Michael Caine, che sarà suo amico per tutta la vita), di sottrarsi a una vita di lavoretti: era stato lattaio, bagnino, operaio, autista e verniciatore di bare. Ma anche marine, modello per artisti e body builder. L’ingresso quasi casuale nel mondo del teatro, dove fa le prime esperienze come attore, sarà la vera svolta. Il cinema gli darà la popolarità, anzi: lo renderà un’icona globale. È impossibile parlare di Connery senza pensare a James Bond, di cui è stato il primo e il più amato degli interpreti, da “Licenza di uccidere”, nel 1962, fino a “Mai dire mai” (che non fa p starte della saga ufficiale). In questi vent’anni c’è la costruzione di un mito mondiale, fatto di Aston Martin, belle donne e avventure mozzafiato. Ma non solo: nella sua carriera Connery risolve, anche a livello cinematografico, la Guerra Fredda, interpretando nel 1990 il capitano sovietico Marko Ramius di “Caccia a ottobre rosso”. L’anno precedente era stato anche il padre di Indiana Jones nel terzo – e migliore – episodio della saga dell’archeologo avventuriero. In quel decennio d’oro, per lui, interpreta anche l’incorruttibile Jimmy Malone negli “Intoccabili”, del 1987, e l’anno prima è Gugliemo di Baskerville nella trasposizione cinematografica del “Nome della Rosa”, film che è riuscito nell’impresa di sovrapporsi al romanzo nell’immaginario collettivo (chi, oggi, lo legge senza dare al protagonista il suo volto e le sue movenze?) È stato tutto questo e molto di più. Ha lavorato con Alfred Hitchcock nel 1964 (“Marnie”, con cui alterna alle missioni impossibili di Bond un ruolo da comprimario in un dramma psicologico) e con Sidney Lumet (“Riflessi in uno specchio scuro”) per poi diventare un poeta dalle strane tendenze psichiche (“Una splendida canaglia”, del 1966) e un bizzarro sterminatore di esseri umani nel fantascientifico “Zardoz”, pietra miliare del genere e opera di culto per gli appassionati. En passant, è stato anche un highlander, un medico nella giungla, un cavaliere. Un uomo straordinario con una leggenda pubblica. Quella privata, invece, ha visto momenti d’ombra, come le accuse di misoginia (soprattutto per gli abusi, fisici e psicologici, di cui lo ha accusato la prima moglie) e quelle di evasione fiscale, che però sono cadute da sole. Ma ha visto anche momenti di impegno pubblico, soprattutto sul fronte dell’indipendentismo scozzese: l’uomo che è stato definito “Il più grande scozzese vivente” o “Il più grande patrimonio nazionale scozzese vivente” o soltanto “L’uomo più sexy del secolo”, dal tempo della sua esperienza in marina vantava un tatuaggio con la scritta “Scotland Forever” (insieme a quello più intimo dedicato alla famiglia, “Mum and Dad”), a questo cui vanno aggiunte le uscite in kilt, l’appoggio al referendum del 2014 e, chissà, la speranza di un distacco definitivo da Londra scaturita dalla follia della Brexit. Con la moglie aveva fatto un patto: chi sarebbe morto pre primo sarebbe stato cremato. E le ceneri sarebbero diventate un diamante, che l’altro indosserà. È un altro modo, si può dire, per risplendere per sempre.
31 Ottobre 2020