Per spiegare il momento che stiamo vivendo basterebbe guardare La Grande Bellezza, l’ultimo film italiano ad aver vinto l’Oscar per il miglior film straniero. Correva l’anno 2013 e il regista, Paolo Sorrentino, mostrava l’elegante declino di Roma. I protagonisti del film erano persone anziane che partecipavano a feste nostalgiche perché ricordavano la loro giovinezza: l’allegoria perfetta dell’Italia. Un paese vecchio che continua a celebrare una bellezza che fu ma, alla fine, prende contezza del vuoto che lo circonda. Inizialmente il film ricevette recensioni negative, ma divenne un capolavoro quando il pubblico si rese inconsapevolmente conto che il declino di cui parlava il regista era il declino di tutta Italia.
Non è solo un problema sociale, ma economico. L’Italia è l’unico paese europeo la cui economia non si è ripresa dalla crisi del 2008, esclusa la Grecia. Nel 2019 il Prodotto interno lordo era inferiore del 4% rispetto al 2007. Non solo l’economia non è cresciuta, ma si è registrato un divario con il resto d’Europa. Nello stesso periodo i Pil di Germania, Francia e Spagna sono aumentati rispettivamente del 16%, 12% e 7,5%. Mentre nel 2007 il PIL pro capite di un italiano (37.800 $) era pari al 90% di un tedesco (41.600 $), nel 2019 la proporzione è scesa al 70% (33.200 $ contro 46.300 $).
L’attuale crisi dovuta alla pandemia amplierà ancora di più questa divergenza. L’Italia è stato il primo paese europeo a dichiarare la quarantena e, finora, tra i paesi più colpiti dalla pandemia. Non si tratta soltanto di una questione sanitaria ma anche economica. Tra tutti i paesi dell’Unione, l’Italia registrerà la più grave recessione (-10,6%) dopo la Spagna (-12,8%). D’altro canto, la Germania subirà un calo del PIL del 6%.
Nel 2021 l’economia crescerebbe poi del 5,2% in Italia e del 4,2% in Germania: sarebbe la prima volta dal 2005 che il PIL dell’Italia aumenta più del PIL tedesco. Ma è un dato che nessuno sarebbe disposto a celebrare. Nel 2021 il PIL dell’Italia sarà un 6% inferiore rispetto al 2019 e 10% inferiore rispetto al 2007.
Saremo anche un paese più indebitato. A fine 2019 il debito totale dell’Italia era pari a 2409 miliardi di euro: il 135% del PIL. Il deficit previsto per quest’anno sarà superiore al 10%. La contemporanea caduta del PIL porterà il rapporto debito/PIL al 160% a fine 2020. In altre parole, l’Italia non dovrà più indebitarsi nei prossimi anni, o rischia il collasso.
Ma secondo il ministero dell’Economia, non vedremo un attivo di bilancio prima del 2027. La ragione è abbastanza semplice: l’acquisto di titoli di Stato da parte della Banca centrale europea ha portato i tassi di interessi a livelli storicamente bassi: 1% circa. A fronte di questi tassi, è quindi probabile che l’Italia si indebiti ancora di più per cercare di stimolare la propria economia. Ma fino a quando si può abusare della pazienza dei mercati? E soprattutto che tipo di spesa finanzierebbe il deficit?
L’Italia oggi è un paese anziano. Quasi un italiano su 4 (23%) ha più di 65 anni. L’Italia è il paese con la più alta età mediana d’Europa (46,7 anni) mentre nel 1990 era poco più di 35 anni. Ma è anche un paese che vive una crisi demografica. Nel 2019 sono stati registrati 634mila decessi e 420mila nascite. Quest’ultimo rappresenta il numero più basso dall’Unità di Italia. È un dato sensibilmente inferiore al numero medio di nascite nel primo decennio del 2000 (550mila). Il saldo tra decessi e nascite è negativo dal 2006. In altri termini, in ciascuno degli ultimi 15 anni l’Italia ha registrato più decessi che nascite.
Come se non bastasse, i giovani italiani faticano più dei coetanei europei. La percentuale di giovani che non lavora, non studia né frequenta corsi di formazione (23,8%) è la più alta d’Europa (14%). Il tasso d’occupazione dei giovani laureati italiani (53,7%) è il più basso d’Europa, lontanissimo dalla media europea (75,7%) e dalla Germania (89,2%). Non sorprende che tanti lascino il paese per trasferirsi all’estero. Secondo l’Istat, nel 2019, 182mila italiani hanno lasciato l’Italia. Si tratta di un aumento del 16% rispetto all’anno precedente.
Potremmo essere di fronte a una rottura dell’equilibrio sociale e demografico che creerà maggiori problemi economici. Attualmente l’Italia spende il 15,8% del suo PIL in pensioni rispetto a una media europea del 12,5%. Nei prossimi anni un numero sempre minore di lavoratori dovrà sostenere un numero crescente di pensionati. È un equilibrio precario ulteriormente destabilizzato da Quota 100. Il rischio è che i deficit nei prossimi anni dovranno finanziare un sistema pensionistico sbilanciato piuttosto che gli investimenti.
In tale contesto, solo l’immigrazione negli ultimi due decenni è riuscita a compensare in parte la crisi demografica e a mantenere il sistema pensionistico in equilibrio. Senza il contributo degli immigrati, l’economia italiana sarebbe ancora più insostenibile. I figli degli stranieri rappresentano attualmente il 15% delle nascite in Italia e oltre il 20% nel nord del paese. Il 25% in Emilia-Romagna. Tuttavia, non tutti sono riconosciuti come cittadini italiani dalle anacronistiche leggi italiane. Ad esempio Mario Balotelli, nato a Palermo e adottato da una famiglia italiana di Brescia, ha dovuto attendere fino all’età di 18 anni prima di diventare italiano. Nel 2017 il governo di Paolo Gentiloni ha cercato di modificare la legge introducendo il principio dello Ius Culturae, vale a dire il riconoscimento della cittadinanza per i bambini che completano l’istruzione primaria o secondaria. Ma il tentativo è fallito e la questione non è stata nuovamente sollevata.
Infine, l’Italia rimane un paese profondamente diviso. Il PIL pro capite nel Sud è pari alla metà del PIL pro capite nel Nord. La disparità di opportunità alimenta la migrazione interna dal Sud al Nord. Si stima che tra il 2002 e il 2017 oltre due milioni di meridionali siano emigrati all’interno del paese. È un fenomeno fomentato dallo Stato dato che, come sostenuto da Banca d’Italia, gli investimenti pubblici al Sud in rapporto alla popolazione sono risultati sistematicamente inferiori rispetto al Centro Nord.
In effetti, i maggiori progetti di investimento in Italia riguardano l’Italia settentrionale. Negli ultimi mesi sono state consegnate due importanti opere pubbliche. La prima è il MOSE, il sistema di dighe costruito per proteggere Venezia dalle alte maree. Un’opera immensa iniziata nel 2003 e al centro dell’attenzione da parte della magistratura per casi di corruzione. Tra tutti, l’ex presidente della regione Veneto è stato condannato a due anni di reclusione. La seconda è il ponte San Giorgio di Genova costruito sulle macerie del ponte Morandi crollato nel 2018 causando la morte di 43 persone.
Nel frattempo, lo Stato assiste quasi impotente all’attuale crollo economico. In estate si è parlato di progetti spettacolari come la costruzione del ponte tra la penisola e la Sicilia. Un’idea che ricorre regolarmente a tutti i governi italiani e che regolarmente viene abbandonata per via dei costi (oltre 6 miliardi di euro) e delle difficoltà di costruire un ponte sospeso di oltre 3 chilometri in un’area altamente sismica. Questa volta bisogna però dar merito di avere letto una nuova proposta: un tunnel sottomarino.
Infine, lo Stato potrebbe tornare a essere un attore principale dell’economia. Il caso più evidente è l’ennesimo salvataggio di Alitalia. Un’operazione non nuova i cui risultati non sono mai stati incoraggianti. Basti pensare che fino al 2019 la compagnia che trasportava il maggior numero di passeggeri in Italia è stata Ryanair. L’intervento dello Stato potrebbe rivelarsi un boomerang che rischia di scoraggiare gli investimenti di altre imprese in Italia.
Fino a qualche anno fa potevamo credere di vivere semplicemente una crisi. Adesso, considerato tutto, dovremmo iniziare a parlare di vero e proprio declino. Il nuovo accordo sul Fondo di Ripresa e Resilienza (Recovery and Resilience Fund) rappresenta un’opportunità unica di rilancio. Ma gestire un flusso così ampio di risorse economiche non è semplice. Bisogna avere una visione del paese per i prossimi decenni. Non si tratta soltanto di fermare il virus e rilanciare l’economia, ma di ridare slancio un paese vecchio, impoverito, diviso e indebitato. È necessario un coordinamento tra i vari attori del paese e un nuovo patto sociale. In caso contrario, dovremmo abituarci a vivere un lento e progressivo declino. Dopo tutto, come ci ricordano gli emigrati italiani nel mondo, non sarebbe la prima volta nella nostra storia.
Articolo precedentemente pubblicato su El Economista (Argentina)