Giovedì scorso il presidente francese Emmanuel Macron ha chiamato Ben Smith, media columnist del New York Times, per chiedergli alcune spiegazioni sul modo in cui il suo giornale ha deciso di coprire gli ultimi attentati islamisti in Francia. Smith, che non vive a Parigi e non si occupa di politica francese, ma del mondo dell’informazione e spesso anche di quello che accade all’interno della redazione del Times, ha raccontato la telefonata e contestualizzato le critiche di Macron in un lungo articolo pubblicato lunedì.
Le incomprensioni tra Macron e la stampa anglosassone, che durante la campagna elettorale e nel primo anno di presidenza era stata invece particolarmente benevola nei suoi confronti, sono esplose dopo l’assassinio del professore di storia e geografia Samuel Paty, decapitato da un diciottenne ceceno radicalizzato per aver mostrato delle vignette satiriche di Charlie Hebdo in classe.
Macron, in particolare, ha detto a Smith di essere deluso dal comportamento dei media americani, e preoccupato: «Quando vedo, in questo contesto, numerosi giornali di paesi che condividono i nostri valori e che scrivono in un paese figlio naturale dei Lumi e della Rivoluzione Francese, e che legittimano queste violenze, che dicono che il cuore del problema è in realtà la Francia razzista e islamofoba, mi dico: abbiamo perso i fondamentali»
Il presidente, come gran parte dell’opinione pubblica francese, è rimasto particolarmente deluso dai primi titoli sull’attentato di Conflans-Sainte-Honorine. Il New York Times, in effetti, non ha parlato fin da subito sull’assassinio jihadista, ma in un primo momento aveva scelto di titolare in questo modo: «La polizia francese spara a un uomo e lo uccide dopo un attacco omicida con un coltello in strada».
Ben Smith ha riconosciuto l’errore e ha spiegato che il titolo è stato cambiato dopo poco, quando la polizia francese ha diffuso i dettagli dell’attentato, ma «gli screenshot sono rimasti».
Il New York Times non è il solo giornale anglosassone a cui Macron ha chiesto spiegazioni sulla copertura della lotta al terrorismo. Il 3 novembre, il Financial Times ha pubblicato un editoriale dal titolo «La guerra di Macron contro il separatismo islamico non fa che accrescere le divisioni in Francia», che ha mandato su tutte le furie il presidente francese, che aveva parlato di una legge contro il «separatismo islamista», non «islamico».
L’Eliseo ha fatto pressioni sul Financial Times, che non ha soltanto corretto e segnalato l’errore, ma ha scelto di eliminare l’articolo dal suo sito, una decisione senza precedenti secondo Kristina Eriksson, portavoce del quotidiano citata dal New York Times. Il giorno dopo, il giornale ha pubblicato una lettera di risposta di Emmanuel Macron.
Secondo il Monde, all’Eliseo la questione è seguita in modo minuzioso: «Il momento è molto sensibile», ha spiegato al quotidiano francese Anne-Sophie Bradelle, consigliera sulla comunicazione internazionale di Macron «Da giorni passo il mio tempo a cercare di spiegare e giustificare il modello francese ad alcuni media americani e inglesi».
Il presidente, dunque, considera importante tanto la copertura mediatica nel mondo arabo (e infatti ha concesso una lunga intervista ad Al Jazeera per argomentare la posizione francese) quanto quella nel mondo anglosassone.
Anche Politico Europe, come il Financial Times, ha deciso di eliminare un editoriale scritto da una persona esterna alla redazione, senza però ricevere pressioni dall’Eliseo (in questo caso molti intellettuali e commentatori avevano segnalato l’articolo come “vergognoso”). L’editoriale si intitolava “La laicità, la pericolosa religione francese” ed era stato scritto da Farhad Khosrokhavar, direttore di studi alla EHHS, Ecole des Hautes Etudes en Sciences Sociales di Parigi.
Dopo numerose critiche ricevute, anche Politico ha ritirato l’editoriale, senza avvertire l’autore (che ha parlato di «censura pura e semplice»), perché, secondo il direttore di Politico, Stephen Brown, «non rispettava le regole editoriali».
Brown ha in seguito spiegato al New York Times di essersi scusato con Khosrokhavar, di aver ritirato l’articolo perché era stato pubblicato in un momento poco opportuno, e ha ammesso, come il Financial Times, di non ricordare altri casi in cui un articolo di opinione era stato rimosso.
Anche in questo caso, Politico ha poi pubblicato una risposta all’articolo ritirato, stavolta firmata da Gabriel Attal, portavoce del governo francese.
L’autore dell’editoriale rimosso ha scritto un nuovo articolo per raccontare cosa fosse successo con Politico e per argomentare ulteriormente il proprio punto di vista sul sito OrientXXI, dicendosi molto stupito dalla decisione del giornale americano.
In queste settimane molti commentatori europei hanno criticato duramente l’atteggiamento dei media americani, condividendo le preoccupazioni del presidente francese.
Liam Duffy, ricercatore britannico esperto di antiterrorismo, ha scritto sul sito UnHerd che molti editorialisti britannici e americani non capiscono il punto di vista di Macron perché leggono quello che accade in Francia con lenti statunitensi, come se il dibattito francese sull’islamismo fosse una declinazione del dibattito americano sull’identity politics.
«Invece il governo di Macron vede l’islamismo come un’ideologia politica suprematista e totalitaria che minaccia la repubblica e impedisce ai cittadini di accedere ai propri diritti e alle protezioni che li garantiscono. È un problema politico, non di razza o religione».
Caroline Fourest, giornalista francese vicina a Charlie Hebdo e molto impegnata per la libertà di espressione, ha spiegato in una lunga intervista al settimanale Express che «il New York Times è storicamente, e in modo costante, uno degli organi di stampa più violenti contro la laicità francese […] la stampa anglosassone non capisce nulla della situazione francese e riflette a partire dalla situazione americana. Il malinteso culturale è profondo, mi ricordo di aver letto un articolo del 1905 in cui il New York Times scriveva che la legge sulla separazione tra Stato e Chiesa serviva a perseguitare i credenti. E non è soltanto un malinteso, c’è una forma di imperialismo culturale, una vera volontà di denigrare il modello francese per valorizzare il modello americano. E il New York Times non è il solo: con il Washington Post collabora Rokhaya Diallo, molto apprezzata per i suoi commenti contro Charlie Hebdo e contro la laicità. Il suo corrispondente a Parigi ha scritto che Riss (vignettista di Charlie Hebdo) aveva disegnato Maryam Pougetoux, la vicepresidente dell’Unef, che porta il velo, come una scimmia. Una menzogna che mette in pericolo Riss, che invece ha un suo tratto specifico, una sua firma, e aveva ritratto allo stesso modo Nicolas Sarkozy e Marine Le Pen. Siamo di fronte a dei militanti del modello americano che nutrono i pregiudizi dei loro lettori presentando la Francia come un paese che perseguita i musulmani».
Un articolo del Washington Post scritto dal corrispondente a Parigi James McAuley, e titolato “Al posto di combattere il razzismo sistemico, la Francia vuole riformare l’Islam”, ha fatto infuriare l’opinione pubblica francese, che ha trovato la critica completamente fuori luogo.
Lo stesso Macron, nella sua telefonata al New York Times, ha detto a Ben Smith che «esiste una sorta di fraintendimento rispetto a cosa sia il modello europeo, e in particolare quello francese. La società americana è stata segregazionista e oggi ha sposato il modello multiculturale, che si basa sulla coesistenza di diverse etnie e religioni una accanto all’altra. Il nostro modello è universalista, non multiculturalista. Nella nostra società, a me non importa se qualcuno è nero, bianco o giallo, se è cattolico o musulmano, una persona è in primo luogo un cittadino».
Bernard Haykel e Hugo Micheron, ricercatori dell’università di Princeton, hanno analizzato in una lettera al Monde la linea editoriale dei due principali quotidiani americani alla luce della polarizzazione politica oggi presente negli Stati Uniti. I due ricercatori scrivono che al momento degli attentati in Francia, Washington Post e New York Times erano influenzati dalla campagna elettorale per le presidenziali, e hanno tenuto un approccio critico con la concezione francese della laicità principalmente per due motivi: da un lato «le notizie che potrebbero aiutare Donald Trump sono frequentemente filtrate o nascoste», dall’altro «dall’omicidio di George Floyd i media progressisti difendono l’idea di un trattamento mediatico specifico per l’islam, all’interno della lotta contro un razzismo “sistemico”»
Così, scrivono Micheron e Haykel, «di fronte a queste nuove preoccupazioni, che definiscono ormai i nuovi canoni intellettuali per una larga parte della sinistra americana, la libertà di espressione deve fare un passo indietro davanti a dei fatti specifici. In nome della giustizia sociale, la priorità è il correct speech non più il free speech. In questo modo, per non “urtare” la sensibilità dei “musulmani”, è meglio omettere la dimensione jihadista della decapitazione di un professore davanti alla scuola dove insegna».
Ben Smith nota che la diversità culturale tra Francia e Stati Uniti, su questi temi, è evidente. Ma se «i francesi alzano gli occhi di fronte alle manifestazioni dimostrative del cristianesimo americano. […] Le lamentele del ministro dell’Interno sul cibo halal nei supermercati si scontrano d’altro canto con la libertà di espressione protetta dal Primo emendamento. Queste distinzioni ideologiche astratte possono sembrare lontane dalla vita quotidiana delle grandi minoranze etniche francesi, che lamentano abusi da parte della polizia, segregazione residenziale e discriminazione sul posto di lavoro».
Secondo Smith la differenza culturale si manifesta anche su altri argomenti, come il movimento #Metoo, molto criticato in Francia. E in ogni caso, conclude il giornalista americano, per leggere le azioni di Macron bisogna anche tenere presente il contesto in cui si muove il presidente francese: «Una lotta durissima contro il coronavirus, un’economia debole e una minaccia politica dalla destra. Sta anche cercando di superare il fallito tentativo di costruire una relazione con il presidente Trump, e ha chiamato il presidente eletto Biden il giorno prima della nostra conversazione».
Macron non ha mai concesso un’intervista al New York Times dal suo insediamento all’Eliseo. Forse questo scambio di opinioni produrrà una conversazione più lunga e strutturata. Almeno, è quanto Ben Smith si augura.