Diciannove tra associazioni e comitati che si occupano di affidamento condiviso dei minori e di tutela dei diritti dei genitori separati hanno scritto al premier Giuseppe Conte chiedendo, in vista delle annunciate nuove restrizioni, «di poter prevedere espressamente che i figli di separati possano godere della frequenza presso entrambi i genitori, secondo i calendari già in essere e previsti dagli accordi di separazione o dalle disposizioni giudiziali, e permettere i relativi spostamenti dei genitori e/o dei figli su tutto il territorio nazionale per adempiere a tali obblighi».
Con questa iniziativa sperano di scongiurare il ripetersi degli errori commessi durante il primo lockdown, quando hanno registrato «una grande sofferenza dei figli di coppie separate o divorziate che, in molti casi, non hanno potuto incontrare il genitore non convivente per diverse settimane o mesi a fronte della limitazione degli spostamenti.
La non esplicita chiarezza dei vari provvedimenti (DPCM), ha purtroppo alimentato comportamenti strumentali da parte di molti genitori conviventi con i propri figli, volti a impedire la frequentazione e il diritto/dovere alla bigenitorialità per i non conviventi.
Tutto ciò accadeva – aggiungono ancora – contro ogni principio costituzionale, in contrasto con i decreti del governo, nel silenzio dei tribunali ordinari e minorili, e attraverso plurime e distorte interpretazioni dei provvedimenti da parte dei servizi territoriali (sociali e tutori), che in moltissimi casi hanno creato anche discontinuità nelle visite in casa-famiglia e impedito la prosecuzione degli incontri nei luoghi neutri.
La conseguenza è stata anche la proliferazione di un enorme numero di contenziosi e ricorsi presso le aule di Giustizia (civile e penale), con inutile e oneroso sovraccarico presso la magistratura, già in blocco per l’emergenza, che si è espressa con decreti contraddittori spesso in contrasto con le FAQ governative».
Alberto, che fa riferimento all’associazione Papà Separati di Milano, ha vissuto sulla propria pelle l’esperienza traumatica causata dalla scarsa chiarezza delle norme.
Ha chiesto di non rivelare il suo cognome perché «gli uomini – racconta a Linkiesta – quando si espongono mediaticamente rischiano pesanti ripercussioni. Fateci caso: le donne non hanno quasi mai problemi a raccontare la loro vicenda in tv o sui giornali mentre noi sì. E la ragione è perché abbiamo paura».
Ha deciso di raccontare la sua storia perché spera che la sua testimonianza possa contribuire a smuovere le acque e ad evitare le sbavature e l’incertezza normativa dei mesi scorsi: «Non ho visto mio figlio per 100 giorni ed è stata una sofferenza indicibile. Vivo a Milano, lui a Napoli con la mia ex compagna. Per più di tre mesi mi è stato impedito di esercitare il mio ruolo genitoriale perché i provvedimenti a firma del presidente del Consiglio dei ministri non erano chiari in merito alla possibilità di spostarsi da una regione all’altra; poi mi sono accorto, consultando proprio il sito del governo italiano, che potevo incontrarlo. Nel frattempo, però, è successo di tutto. Quando una coppia si separa spesso nascono dei conflitti che si trascinano per anni e sappiamo, perché questa è la verità, che il genitore cosiddetto collocatario, quello presso cui risiede il figlio e che quasi sempre è la madre, può decidere praticamente tutto perché si trova in una posizione di forza. L’emergenza sanitaria, pur non volendo generalizzare perché non sarebbe giusto, non ha fatto altro che acuire tensioni e risentimenti».
Risultato: con la motivazione formalmente corretta che andavano ridotti all’osso i contatti e le visite per salvaguardare la salute del bambino, molti papà si sono visti negare dall’ex coniuge o convivente il diritto, stabilito dalla legge e dalle disposizioni del giudice in sede di separazione, di incontrare i propri figli.
La legge sull’affidamento condiviso parla chiaro e prevede la partecipazione di entrambi i genitori alla cura e all’educazione dei figli ma evidentemente, complice la pandemia, più di qualcuno ne ha approfittato per vendicarsi o regolare i conti di un passato burrascoso fatto di litigi e di incomprensioni.
E che più di qualcosa non abbia funzionato, lo si capisce anche leggendo il decalogo stilato da un’autorevole rivista specializzata sui temi della genitorialità e dell’infanzia. Alla domanda “Posso raggiungere mio figlio che abita in una città diversa”, la pedagogista Chiara Borgia e l’avvocato Marcella De Luca hanno risposto che «in mancanza di espressa previsione nel DPCM dell’11 marzo e nelle misure precedenti, si può ritenere che tra gli spostamenti possibili per “indifferibili motivi” rientri il diritto/dovere di stare con i figli, ma soprattutto il diritto dei minori di passare del tempo di qualità con il genitore che vive lontano, in un momento così duro anche per loro. Il tutto ovviamente nel rispetto delle precauzioni previste per la salvaguardia della salute dei minori stessi. Altrimenti ci sarebbe una ingiustificata discriminazione rispetto a chi abita nello stesso comune. Anche di fronte a tale difficile situazione i diritti fondamentali devono essere garantiti».
Ma quanti sono i ragazzi, per lo più minori, che vivono questa condizione di oggettiva difficoltà?
A rispondere è Ernesto Emanuele, presidente dell’associazione Papà separati di Milano: «Non abbiamo numeri precisi da fornire ma possiamo ricavare un dato approssimativo considerando il numero di separazioni registrate in Italia dal 1975 ad oggi. A fronte di circa cinque milioni di persone che hanno scelto di lasciarsi e tenuto però conto che non tutti avevano generato prole, possiamo ritenere che attualmente in Italia ci siano almeno due milioni di ragazzi che vivono abitualmente con uno solo dei genitori. È probabile però che si tratti di una stima per difetto».
Di loro, in qualità di figli di genitori separati prima ancora che di studenti, dovrebbe occuparsi il governo, magari rispondendo positivamente alle sollecitazioni delle 19 realtà associative operanti su tutto il territorio nazionale e che esprimono, aspetto da non sottovalutare, sensibilità culturali differenti. Segno inequivocabile che la questione seria e merita perciò la massima attenzione.
La lettera è stata spedita il 22 ottobre scorso ma da palazzo Chigi, al momento, nessuno si è ancora premurato di rispondere.