I romanzi di Giacomo Papi sono battute portate all’estremo. “Il censimento dei radical chic” (Feltrinelli, 2019) raccontava un Paese dove il pensiero complesso (ma neanche tanto) veniva censurato, ripudiato, messo al bando: fulminante, nelle prime righe, l’accusa: «Si vergogni. Lei fa citazioni mentre il popolo muore di fame».
“Happydemia”, appena pubblicato da Feltrinelli, invece è debitore di un bon mot dell’amico neuropsichiatra Stefano Benzoni, che in occasione del primo lockdown gli aveva portato una scorta di tranquillanti. «Dovrei proprio inventarmi un servizio di psychodelivery», avrebbe detto. La genialità sta in tutto il resto: partire dalla facezia, costruire un romanzo e inventare un mondo parallelo che riassume e rispecchia il nostro. Più tetro, forse, ma raccontato in modo più divertente. Una bella satira, in poche parole.
Happydemia è un servizio di delivery di psicofarmaci, con tanto di rider muniti di appositi borsoni che si aggirano in un’Italia dominata dal virus da anni, schiava dell’ennesimo dpcm (dal titolo #IoMiTappoInCasaDiNuovo), attraversata da ondate di rabbia e lacerata in divisioni violente quanto ridicole: ecco le brigate Semmelweiss a favore di una disinfezione totale, i complottisti, i negazionisti (ma lo negherebbero).
Rinchiusi nelle case, ci sono tutti gli altri, che tra scarpe lasciate fuori dalla porta e diffidenza estrema mostrano di avere assorbito le lezioni di igiene minima e di isolamento massimo («– Sono piene di germi. – Le scarpe? – No, le persone»). Il morbo è più che decennale, il governo in carica ci sguazza, anche perché grazie al contagio ha prolungato la sua permanenza e si prepara a prolungarla ancora distribuendo psicofarmaci gratis.
Insomma, si può fare un romanzo che prende in giro la pandemia e pubblicarlo in piena pandemia? Giacomo Papi sì. Anche perché dietro al paravento della malattia c’è una storia di libertà e crescita, quella del giovane Michele: maggiorenne che vive con il nonno, del tutto inesperto del mondo, per anni privo di contatti umani, non ha mai baciato nessuno.
In un impulso irrazionale, anziché seguire i corsi della sicura università online preferisce farsi assumere come rider (nel libro si chiamano “consignator”), proprio di psicofarmaci. «Michele sospirò di angoscia. Happydemia quelli sotto i trent’anni la conoscevano tutti: era la più grande multinazionale di psychodelivery del mondo, consegnava psicofarmaci in 116 nazioni grazie a un esercito di settantamila psychorider sparsi ovunque, perfino alle Maldive. Era l’azienda più moderna e dinamica del mondo, se ti ingaggiava entravi a fare parte dell’aristocrazia dei consegnator, mica come quelli che si impuzzavano portando hamburger o si spezzavano la schiena trasportando credenze o schermi al plasma». Un sogno. E grazie alle coincidenze del destino e della narrativa, proprio attraverso le consegne troverà l’amore (immancabile) e perfino un barlume di coscienza politica.
Proprio qui si ride (o si piange?) di più: con il teatrino della politica, appunto, e dei suoi attori sempre meno presentabili impegnati nei numeri consueti. Come quelli del presidente del Consiglio, oramai ribattezzato Previdente. Galleggia da anni grazie alla pandemia e fa dell’immobilismo la sua ragione di vita: «Certo che gli esseri umani erano davvero incredibili: appena gli concedevi un po’ di potere e visibilità, gli saliva la smania di cambiare il mondo. Il suo metodo era tutto l’opposto. Non è che non nutrisse fiducia nel cambiamento, al contrario. Era così sicuro che il cambiamento, la fine, la morte, sarebbero arrivati comunque da pensare che l’unica cosa che si può fare per migliorare il mondo è un po’ di manutenzione. Prestare attenzione agli equilibri senza scompaginare con idee nuove i processi già in atto. L’esercizio del potere coincideva per lui con una programmatica mancanza di idee».
Le idee, appunto: nel migliore dei casi sono distrazioni. Oppure, sono come le notizie nel film “Fortapasc”. Anche il silenzioso e intorpidito Segretario del PdLGPP – partito che nasceva a sinistra ma si era perso per strada– condivideva questa visione («Per governare non servono a niente»), e così anche il Ministro degli Affari (Miei) per il quale il potere rappresenta più un modo per prendere la tintarella, vestirsi elegante e combattere la disoccupazione in Campania a colpi di clientelismo (chi sarà?).
Di idee invece ha un grandissimo bisogno l’ex Primo Ministro dell’Interno. Dopo che il contagio ha sgonfiato l’allarme immigrati, è diventato l’ombra di se stesso, fino a ridursi a tornare a vivere con la madre («– Scusami, mamma. Ma ti pare giusto che la regione più colpita sia sempre la mia?»).
Solo, abbandonato dai fan, dai giornalisti dalle televisioni («–Forse hai solo bisogno di un amico. – Ho più bisogno di un nemico, mamma»), in un mondo che per fortuna lo ha dimenticato (e le pagine 149-153 sono un buon motivo e un pugno in faccia).
Caricature più vere del vero, come satira vuole: sagome maltagliate chiamate a suggerire, tra le risate, qualche verità sul potere, sulla comunicazione, sui complotti.
Ma appunto, sono ghigni amari: la civiltà delle buone maniere ha lasciato il campo a quella delle buone pratiche sanitarie (la recita delle note verticali, a margine delle pagine, si diverte a coinvolgere il lettore: «Non c’è niente da ridere. Vai ad aprire la finestra. Fila!»), il Paese è diviso, la storia bloccata e si vive sempre più nervosi.
È una palude, è il nuovo mondo, come lo spiega nonno di Michele, ricordando le rivolte dei suoi tempi: «Ma noi eravamo tanti, – continuò il vecchio. – Per ogni persona sopra i sessant’anni ce ne erano tre sotto i venti. Oggi è il contrario, basta uscire per accorgersene. Quando ero giovane io per strada si respirava voglia di vivere, oggi solo paura di morire».