Il labirinto è la più antica raffigurazione dello smarrimento e del dolore che accompagnano ogni successiva metamorfosi. Molto prima dell’Ade greco, dell’Averno dei latini, dello Sheol ebraico, dello Jahannam musulmano e dell’Inferno dei cristiani, il mito cretese di Minosse incombe sulle culture del mondo, archetipo di ogni condizione di disorientamento e di paura. In esso vacillano le speranze, si smarrisce l’equilibrio, si sfiora la follia, si generano mostri.
Il labirinto ha accompagnato l’uomo assumendo di volta in volta le sembianze della persecuzione, dell’intolleranza, dell’inquisizione, dei manicomi, dei gulag stalinisti, dei campi di concentramento nazisti, degli sterminati campi profughi che costellano il mondo globalizzato. Sempre istituzione totale, sempre funestato dalla grande menzogna – arbeit macht frei – di un paradiso prossimo venturo come nel libro Asylums del sociologo canadese Erwin Goffman del 1961, ripubblicato nel 2001 con la prefazione di Franco Basaglia e Franca Ongaro. Un breviario cult, coevo di tanti altri che hanno formato una generazione. Nascosto in non so più quale ripiano della biblioteca, ne ricordo ancora la copertina bipartita orizzontalmente nei colori del blu e del bianco.
Il tema ha attraversato le epoche della Storia, ha ispirato la letteratura da Ovidio a Dante Alighieri a Gabriele D’Annunzio, da Jorge Luis Borges a Friedrich Durrenmatt, da Italo Calvino di cui ho scritto in più occasioni e da Pier Paolo Pasolini a Mircea Eliade, a Umberto Eco; è stato modello per l’architettura ed i decori delle grandi cattedrali gotiche da Ravenna a Chartres, da Colonia a Telemark; per le arti visive da Pablo Picasso, a Jason Pollock, da Mirò a Escher; per il cinema, a partire dal Gabinetto del Dottor Calligaris che compie cento anni e poi Shining, Harry Potter, il Labirinto del Fauno, Il Nome della Rosa e mille altri horror/fantasy movies dai padri più o meno illustri. Psicoanalisi junghiana ed arte topiaria ne hanno indagato i significati ed arricchito menti, palazzi della memoria e giardini segreti che poi sarebbero la stessa cosa, almeno secondo il Doctor Hannibal Lecter. Il simbolo più iconico dell’era digitale, il Qrcode, né è la rappresentazione più recente e avvera antiche profezie ctonie.
Il labirinto tuttavia non è solo disperazione e follia poiché contiene anche la promessa di una via d’uscita il cui prezzo è altissimo e produce una selezione spietata tra quanti lo attraversano. Una sfida all’intelligenza umana che può, se capace, di sconfiggere le astuzie del suo mitico costruttore, come accade, già nel mito, attraverso l’intervento di Arianna che, come tutte le donne, tiene in mano la vita di Teseo, maschio spaccone che, altrimenti, sarebbe rimasto a far compagnia per sempre al cadavere del mostro in attesa, almeno secondo il bibliotecario di Buenos Aires, di essere liberato dal proprio destino: «Lo crederesti Arianna – disse Teseo – il Minotauro non si é quasi difeso».
Labirintica è la burocrazia de Il Castello di Franz Kafka ma anche la memoria di Marcel Proust che percorre i sentieri intricati della Recherche e vi si perde magnificamente perché il dedalo è anche il mondo della menzogna, delle piste false, dei mille tranelli che oggi chiamiamo fakenews; la vertigine vi regna sovrana.
Labirintica è la società complessa dove la verità è un mito e in cui si sopravvive solo attraverso la mediazione tra culture, sentimenti, costumi, fede e ragione e che, in assenza dei necessari anticorpi, spesso travolge anche ciò che si riteneva valore irrinunciabile.
Intricati e infidi sono infine i sentieri dei “nidi di ragno” della politica dei giorni nostri popolata da minotauri di diversa natura e statura che spesso però nascondono i propri piedi d’argilla urlando e imprecando o ricorrendo a seduzioni e blandizie non meno inquietanti. Forse, in fondo, come ogni serial killer che si rispetti, coltivano inconsciamente il desiderio di essere scoperti e neutralizzati.
Il labirinto italiano è in questi giorni sotto gli occhi di tutti. Un microscopico virus è bastato a far scoppiare le tante contraddizioni politiche ed istituzionali di un Paese che, per la verità, lineare non è mai stato come ben scrivevano Dante Alighieri nel ben noto accostamento al lupanare, Niccolò Guicciardini nel Proemio alla Storia d’Italia e Giacomo Leopardi «O Patria mia vedo le mura e gli archi e le colonne, i simulacri e l’erme torri degli avi nostri ma la gloria non vedo, non vedo il lauro… Chi la ridusse a tale? E questo è peggio che di catene ha carche ambe le braccia; si che sparte le chiome e senza velo siede in terra negletta e sconsolata» e via poetando nella lirica civile All’Italia, pubblicata quasi duecento anni fa.
Sarà per questo che i nostri partners del nord Europa che di dubbi si intendono perché ne appresero da Cartesio, a cui ciò costò una polmonite fatale nella fredda Stoccolma di esattamente di trecentosettanta anni or sono? Adorano il nostro stile di vita, come tutti amiamo fare almeno una volta nella vita, un giro sulla ruota del Prater o provare un brivido nel tunnel dell’orrore di Madame Tussauds o nell’ottovolante di Legoland, ma non ci stimano e non acquisterebbero mai una nostra automobile, né nuova né, tanto meno, usata. Per loro il labirinto italiano è inconcepibile.
Come baroni rampanti e (vis)conti dimezzati si aggrappano a precarie liane con cui ci sbalzano da una promessa di eterna cuccagna a ben più risicate speranze cui abbocchiamo volentieri mentre il Paese brucia. Ieri la sconfitta della povertà, le vacanze estive con tanto di bonus farlocco, oggi il Natale agitato come una carota che compensi il bastone, domani il vaccino anti Covid 19 che ci di farà assistere ad una nuova versione dell’assalto al Forno delle Grucce.
A complicare un DNA già bizzarro, sembra contribuire ora una nuova mutazione sociale che fa saltare i fragili paletti dell’impianto istituzionale e sta trasformando alcune opportunità contenute nel regionalismo italiano, raggiunto oltre trent’anni dopo il varo della Costituzione, immaginato come applicazione del principio di sussidiarietà e poi trasformato in una balcanizzazione di competenze e poteri, complice anche l’insano desiderio del centro sinistra di inseguire la Lega di Bossi e di Maroni, dovuta alla modifica del Titolo V della Carta nel 2001.
Un’Italia non più desta ma addormentata nella presa d’atto della divisione socio economica del Paese in tre parti fortemente differenziate, si avventurò in una sorta di coitus interreptus da cui, nonostante ciò, nacquero omuncoli, immediatamente autonominatisi “governatori”. Come se già non fosse bastata l’anomalia delle regioni a Statuto speciale, frutto di un compromesso penoso per contenere il separatismo siciliano, l’emarginazione sarda e le pulsioni centrifughe di Friuli, Val d’Aosta e Trentino Alto Adige, descritte non male da Lilli Gruber nel libro Inganno, tre ragazze, il Sud Tirolo in fiamme e i misteri della guerra fredda, pubblicato nel 2018 da Rizzoli.
Nel frattempo gli omuncoli si sono creduti statisti, hanno cominciato a discettare sui massimi sistemi e ad allevare precarie classi dirigenti, spesso sciolte da criteri costituzionali in merito ad assunzioni, incarichi, responsabilità. Fine dello stato unitario non sostituito da quel federalismo che ebbe in Gianfranco Miglio un discusso quanto competente e sincero apostolo messo da parte dalla corte di Ponte di Legno nel 1994.
Venti nuovi minotauri sono apparsi nel labirintico impianto istituzionale italiano pronti a divorare risorse, a distruggere il Sistema Sanitario Nazionale e in molti casi ad accentuare il divario storico della penisola in cui frattanto si aboliva la Cassa per il Mezzogiorno, fomite di mille sprechi, senza sostituirla con nuovi e più moderni strumenti perequativi. Si apriva in compenso il concilio diabolico della Conferenza Stato Regioni, palcoscenico su cui si confrontano stato centrale e presidenti delle regioni e dove, al confronto, la cacofonia delle lingue seguito al crollo della Torre di Babele, suona come un’armonia mozartiana.
Nel paese delle mille amnistie politiche che tanto hanno influito in passato anche sulla mancata defascistizzazione del Paese, nessun risponderà mai di quel crimine istituzionale e l’autore continuerà a sorridere sotto i baffi, contemplando il disastro che ne è conseguito non perché l’intento fosse errato quanto perché inaffidabili e in mala fede erano i padrini di battesimo e ben nota la tradizione italiana di partorire riforme deformi, in quanto monche e incompiute, ma di grande impatto sulla vita dei cittadini.
La lista è lunga e dà vertigini che è meglio non incrementare in questa fase ma di cui occorrerà tener conto quando e se un giorno diventeremo un “paese normale.” Vasto programma cui nessuno sembra essere disposto a porre mano con la dovuta e necessaria capacità di visione, grande assente da oltre mezzo secolo nella politica italiana.
Di emergenza in emergenza si procede nei tortuosi meandri del labirinto, ostinandosi a percorrere percorsi già battuti, avvitandosi in polemiche e recriminazioni che allontanano dall’uscita di cui non si intravede alcun timido bagliore. Eppure non mancherebbero le risorse di pensiero, di competenze, di innovazione sempre più residue, visto che le più recenti le abbiamo da tempo regalate ad altri paesi vicini o lontanissimi. Proprio come nel labirinto di Minosse dove ogni anno venivano inviate sette fanciulle e sette fanciulli ateniesi, perché fossero pasto per il Minotauro.
Il paradosso del labirinto minoico è frutto di accoppiamenti inusuali. Il luogo è infatti costruito da Dedalo e dal figlio Icaro per contenervi il mostro generato dall’adulterio consumato tra Pasifae, moglie lubrìca del re di Creta e un toro sottratto da Minosse al sacrificio promesso a Poseidone. L’amplesso contro natura era stato reso possibile dal medesimo Dedalo che aveva costruito per l’ardente Pasifae un’armatura in forma di vacca che inducesse il toro truffato a fare comunque il proprio dovere.
Ed è qui che le analogie con la labirintica situazione della situazione politica dei nostri giorni si aprono in un ventaglio come quello dipinto da Edouard Manet nel 1872 e conservato nel Museo d’Orsay, dietro cui la donna ritratta, probabilmente una prostituta, nasconde vergognosamente il proprio volto e non occorre disturbare Massimo Recalcati per coglierne gli elementi simbolici.
Asterione, con testa di toro e corpo umano, nasce dunque dall’unione innaturale tra una forza sana e vitale, almeno in origine, quale quella del toro e la perversa e lubrica passione di Pasifae che impone il proprio potere regale a Dedalo il quale, illecitamente pronubo, acconsente, tradendo così il proprio sovrano, due volte becco a questo punto. A tempo debito Minosse si vendicherà rinchiudendolo nel labirinto insieme al figlio Icaro. Ne usciranno volando, ma questa è un’altra storia.
Lascio al lettore di assegnare in tale gioco delle parti i ruoli che preferisce, tuttavia resta il fatto che dall’unione nasce un soggetto ibrido che sfida la natura (non a caso tale termine deriva dal greco Hybris che vuol dire peccato,tracotanza, trasgressione); come tale vivrà ma sarà sterile, come accade per il più mite mulo o per il cugino bardotto. Sui rischi etici dell’ibridazione, primo tra tutti quello tra l’uomo e la macchina, il dibattito è in corso. Ne ho scritto e ne scriverò, ma non qui e non ora.
Per ristabilire l’equilibrio naturale, l’omeostasi, occorre come sempre un antagonista pronto a sacrificare, se necessario, la propria esistenza. Nel mito tale ruolo è rivestito da Teseo il cui nome deriva da thesmos che dal greco si traduce “istituzione”. Determinato ad interrompere il massacro annuale dei propri quattordici giovani compatrioti ateniesi, si offre volontario tra di essi, con l’intento di uccidere il mostro. Sarebbe destinato a fallire, se non per mano del Minotauro quanto per l’impossibilità di uscire del labirinto, ma sarà salvato dalla saggia Arianna, una delle figlie della coppia Pasifae-Minosse, dunque sorellastra del Minotauro, che, innamoratasi dell’eroe, gli offre il fatidico filo seguendo a ritroso il quale, egli potrà salvarsi, dopo aver ucciso il mostro, metafora della degenerazione del Potere.
L’istituzione guidata dalla razionalità avrà dato senso al coraggio guascone e sarà riuscita a prevalere sull’istinto belluino, ristabilendo l’ordine naturale. Tuttavia il disordine è sempre in agguato e l’ingrato Teseo, abbandonata Arianna, dimenticherà di issare la vela bianca convenuta come segnale per il padre in trepida attesa che, disperato, si lancerà in mare da una rupe, libra di carne umana dovuta a Poseidone defraudato del toro che gli spettava. Tutto si tiene nell’equilibrio spietato del mito. Teseo diventerà re di Atene e leggendario fondatore della democrazia, proprio in quanto rigeneratosi nel labirinto, sopprimendo il frutto avvelenato del potere assoluto ed acquisendo gli anticorpi di sentimento e ragione in pari ed equilibrata misura di cui ho scritto martedì scorso.
C’è stato un tempo in cui ai bambini si narravano “I miti degli dei e degli eroi” contenuti in un poderoso volume da cui nonni saggi traevano gli episodi più adatti a fornire sin dalla più tenera età le chiavi per comprendere il mondo occidentale, come, con altri miti, suppongo avvenisse in altre società più lontane. Ne ebbero giovamento anche quando, per diversa inclinazione o per superficialità, non frequentarono successivamente il liceo classico dove quei racconti infantili sarebbero divenuti radici possenti di una cultura personale di base, immune da pifferai, illusionisti e giocolieri. Finti tesei, improbabili arianne, veri minosse e plausibili pasifae si aggirano nell’Italia di oggi, perduti nel labirinto della pandemia italiana dai colori miracolosamente cangianti. Per essi nessun filo salvifico, nessuna speranza di imboccare il percorso verso l’uscita, soltanto, ad ogni svolta, la concreta possibilità di incontrare il minotauro che vive, a loro insaputa, dentro di essi.
Nel 1960 il filosofo ebreo, premio Nobel 1981 per la letteratura, Elias Canetti, pubblicava per Adelphi, con la prefazione del compianto amico e maestro Furio Jesi, il libro Massa e Potere, frutto del trauma giovanile vissuto nel 1922 durante le manifestazioni seguite all’uccisione da parte dei Freikorps di estrema destra, una sorta di proud guys di cento anni fa, di Walther Rhatenau, ministro degli esteri della Repubblica di Weimar al tramonto.
L’opera è un vero e proprio compendio del labirinto costruito dal potere perché la massa vi smarrisca il senso comune, si nutra di paura, vi perda senno e dignità; un non luogo dove ogni resistenza è sopita, ogni volontà annullata e si è pronti ad “amare” perfino il carceriere, colti da una tragica sindrome di Stoccolma, perché l’incubo finisca. Nonostante l’imponenza del testo e le infinite citazioni e note a margine, andrebbe riscoperto e proposto alle nuove generazioni che, a frotte ben più affollate delle schiere dei giovanetti ateniesi, nel labirinto rischiano di entrare ogni giorno, senza rendersene conto.
A settembre ci ha lasciato Franco Maria Ricci, l’editore visionario, mecenate, esteta della bellezza, cultore della spiritualità delle cose, inventore del più grande labirinto del mondo realizzato a Fontenellato in provincia di Parma. Nell’intervista rilasciata a Gianmarco Aimi ebbe a dire «Il labirinto è un percorso dell’anima, un perdersi per ritrovarsi, oggi l’idea di smarrirci genera timore ed angoscia. Il percorso all’interno del mio labirinto dovrebbe invece servire a ritrovare la serenità, il silenzio, se stessi».
Due visioni apparentemente opposte ma animate l’una dalla religiosità ebraica fondata sul concetto di popolo e della sua aspirazione all’esodo dalla schiavitù e alla liberazione e l’altra dalla dimensione contemplativa della fede cristiana, entrambe radici irrinunciabile dell’identità di Europa, scelta da Zeus trasformatosi in toro non per lussuria ma per amore e madre di Minosse. Per tale uguale ma opposta spinta generativa, nessun minotauro potrà mai minacciarla, finchè saprà trarre dal mito originario che la unifica il significato più profondo del proprio destino e trovare il filo che restituisce alla vita e alla libertà.