Oltre il giardinoL’improvvisazione al potere è finita, Conte non ha più niente da dire

Nella conferenza stampa di fine anno il presidente del Consiglio non ha annunciato nulla. Ormai va avanti per inerzia e si respira un sentore di cambio di stagione, come se il gelo di questi giorni avesse scoperto il corpo nudo di un governo che non sa più cosa fare

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Non ha più niente da dire. Impossibile mascherare questo dato di fatto in una conferenza stampa di tre ore in diretta tv, impossibile per un vecchio professionista della politica, figuriamoci per Giuseppe Conte, un novizio sbarcato a Palazzo Chigi per volontà di Beppe Grillo e Luigi Di Maio col sostegno di Matteo Salvini prima e Nicola Zingaretti poi.

Se il sipario calasse non sarebbe incongruo, stante la mediocrità della commedia, come disse Mino Martinazzoli il 28 aprile 1987 chiedendo a nome della Democrazia cristiana di sfiduciare l’ultimo governo di Amintore Fanfani.

Rileggiamole, quelle parole dell’allora capogruppo democristiano, tanto per misurare le distanze fra la politica e la politichetta: «Non ci faremo imprigionare da una finzione. È dimostrabile che l’astuzia non è illimitata e che, allo stesso modo, è legittimo sottrarsi a un inganno: se la commedia già mediocre è diventata intollerabile e rischiosa, conviene calare il sipario», disse Martinazzoli in un’aula stupefatta.

Ecco, anche oggi si respira, se non un’aria di fine legislatura, quanto meno un sentore di cambio di stagione, come se il gelo di questi giorni avesse scoperto il corpo nudo di un governo che non governa più.

Conte non è all’altezza non solo di un Martinazzoli, ma nemmeno dell’ultimo collaboratore di Arnaldo Forlani, il quale  – come diceva lui stesso – poteva parlare mezz’ora senza dire niente, e però faceva: a suo modo, ma faceva. Conte no: non dice e non fa.

Ieri non ha detto nulla e non ha annunciato nulla. La cosa sta diventando imbarazzante anche per i contiani del Pd, ormai costernati anche loro dall’atteggiamento, diciamo così, inerziale del presidente del Consiglio: tanto è vero che – non sarà sfuggito a Palazzo Chigi – per la dichiarazione di voto sulla legge di bilancio al Senato il gruppo dem ha fatto parlare Luigi Zanda, notoriamente molto critico con Conte, ma ieri addirittura in rotta di collisione nientemeno che sugli strappi istituzionali che si stanno producendo con questo governo e chiudendo il discorso citando la frase sul «debito buono» coniata da Mario Draghi, lo spauracchio dell’avvocato del popolo.

E così dal Nazareno non è arrivato quel commento di sostegno che solitamente un partito della maggioranza rivolge al presidente del Consiglio. Né avrà fatto piacere ai plenipotenziari Roberto Gualtieri e Vincenzo Amendola (che intanto stanno trattando con i partiti di governo sulla versione definitiva della bozza sul Recovery plan) il fatto che ieri Conte abbia ammesso che c’è un ritardo e invitato (se stesso, è da presumere) a fare in fretta: da agosto a Capodanno il governo non è riuscito a licenziare il Pnrr da sottoporre per un esame non formale al Parlamento prima di inviarlo a Bruxelles.

Questo è quello che hanno capito tutti. Anche il Nazareno, sempre più perplesso sull’azione del presidente del Consiglio e anche dei propri ministri, i quali a loro volta si sentono schiacciati fra l’inerzia contiana e la distanza di Zingaretti dalle questioni di governo.

Ieri l’incontro fra Gualtieri-Amendola e la delegazione di Italia viva, per quanto lunga e approfondita, ha sancito che sulla bozza non c’è accordo su una lunga lista di questioni (fra cui giustizia e cybersicurezza). Conte convocherà il mitico tavolo prima della Befana: e lì può succedere qualunque cosa. A partire dall’ipotesi più accreditata, la rottura.

Il presidente del Consiglio, come per sfida, vuole portare la crisi in Parlamento: non pare una grande minaccia, giusto un’operazione mediatica per fare il bis della sceneggiata dell’anno scorso con Matteo Salvini. 

Matteo Renzi pensa di avere gioco facile. Il suo problema è che il Pd pur di non seguire l’odiato ex segretario (e fa impressione sentire certi turborenziani di ieri scagliare certi epiteti verso l’ex capo) cerca di tenere su una zattera che va assomigliando ogni giorno di più alla Zattera delle Meduse di Géricault, con ministri e sottosegretari aggrappati ai legni in mezzo alla burrasca.

La speranza di quasi tutto il Parlamento è che Renzi stia bluffando, ma c’è da chiedersi però quali carte abbiano in mano gli altri: a sentire la sua concione di ieri davanti agli affreschi di Villa Madama e ai giornalisti che bene o male lo incalzavano (malgrado l’occhiuta vigilanza del presidente dell’Ordine dei giornalisti Carlo Verna) pare proprio che Giuseppe Conte non abbia nessun punto in mano. E forse in cuor suo lo sa anche lui.

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