Lessico famigliareAvviso ai miei coetanei e ai trentenni stupiti di oggi: era tutto già successo nel Pippo Chennedy Show

Mi rifiuto di spiegare che quel che accade nel nostro tempo non sta accadendo per la prima volta. Non so come ricordare a quelli della mia età che già ai tempi del programma di Corrado Guzzanti la politica era formata da un’accozzaglia di coalizioni contraddittorie e molte delle espressioni che utilizziamo adesso erano già mainstream

Pippo Chennedy Show/Rai

Una delle più interessanti peculiarità italiane è che la televisione che ricordiamo non è mai televisione.

La televisione funziona per continuità, per assuefazione, per ripetizione della formula nei decenni, mica per colpo di genio momentaneo. Televisione è Guardì, mica Fiorello.

Ma nessuno di noi ricorda un frammento d’un qualsivoglia programma di Guardì, mentre sappiamo tutti citare brandelli dei momenti in cui Fiorello s’è degnato di stare in tv.

Noi scambiamo il palinsesto per la parabola del figliol prodigo: vogliamo che si faccia desiderare, mica che sia lì, prevedibile, affidabile, attendibile.

Noi siamo, d’altra parte, quelli che si compiacciono a ripetere che, eh, noi italiani, con l’ordinaria amministrazione non ce la caviamo granché bene, ma nell’emergenza tiriamo fuori risorse eccezionali (si vede che quella in corso non è un’emergenza).

Noi, esattamente come ripetiamo «Eh, ma abbiamo duemila anni di storia» quando notiamo che a Roma il metrò funziona da schifo, abbiamo deciso che valgono solo i guizzi, i gol di mano, il genio senza regolatezza.

Qual è il programma che citano tutti quando devono sospirare «Eh, la televisione d’una volta»? Quelli della notte, andato in onda per sei settimane nella primavera dell’85.

In questi giorni mi sono messa a rivedere Pippo Chennedy Show (lo trovate su RaiPlay), ed è stupefacente quanto del nostro lessico famigliare venga da otto puntate che andarono in onda nella primavera del ’97. Da «Pascal il pedicure» a «Ma tu lo sai a che ora mi sono alzato io stamattina», da «Si tenne» a «Tu sei pure femmina».

Certo, è perché avevamo vent’anni (quell’età in cui è tutto ancora intero, anche le sinapsi con cui guardi la televisione).

È perché Corrado Guzzanti è un talento così enorme che non si capisce cos’abbiamo fatto per meritarcelo.

È perché prendevamo per il culo gli adolescenti che andavano a confessarsi da Maria De Filippi ignorando che gli adolescenti d’un paio di decenni dopo sarebbero stati su Tik Tok, facendo sembrare la tv confessionale un seminario su Wittgenstein in confronto.

È perché è uno di quei contesti in stato di grazia in cui anche i comici che non faranno mai più ridere, anche loro lì funzionano.

Ma, soprattutto, è perché stava finendo tutto, e non lo sapevamo. Erano gli ultimi anni in cui si poteva ridere delle cose che facevano ridere (L’ottavo nano sarebbe stato quattro anni dopo, e non sarò io a chiedermi se sia stato l’ultimo varietà: sono impegnata a trattenere le lacrime; e comunque: anche quello, col Rutelli di Guzzanti che è forse la cosa più bella vista in tv in questo secolo, era una tirchieria di dieci puntate, siano maledetti i fuoriclasse e la loro non voglia di lavorare).

A rivederlo oggi, Pippo Chennedy ti fa pensare a tutti i cancelletti, le petizioni, i gruppi di offesi che insorgerebbero il giorno dopo se andasse in onda in questa stagione.

La Dandini che dice che non capisce di politica, e D’Alema che «Certo, tu poi sei pure femmina»: sessismo, puntesclamativo.

Pippo Chennedy che fa gareggiare due aspiranti suicidi per debiti per accaparrarsi un assegno con cui risolvere i loro problemi, e alla fine li fa buttare dalla finestra entrambi: istigazione al suicidio, puntesclamativo.

Lo spogliarellista di Neri Marcorè, che si raccapriccia quando sente la parola “cultura” e poi lo scopriamo laureato con una tesi su Hegel: non si scherza sui giovani vessati, sovraqualificati, sottoccupati, puntesclamativo.

Il tossico col suo tormentone «Teniss’ cient’ lire?»: abilismo, puntesclamativo.

Il disoccupato che vagabonda per lo studio televisivo perché i dormitori pubblici a quell’ora han già chiuso: lesa solidarietà sociale, così come la signora toscana che promette sempre di regalare cose ai poveri e poi decide di tenerle. Doppio puntesclamativo.

Ah, il disoccupato risponde «chiamate l’accalappiacani» quando gli dicono che una signora del pubblico è scappata: colpevole di rappresentare un modello di violenza sulle donne come neanche Franca Leosini, come neanche i tutorial sui tacchi al supermercato, processatelo per direttissima.

E Gianni Livore? La moglie che frigge, e lui, col suo sguardo patriarcale, che si lamenta pure, mentre quella povera donna lo sfama.

E Valeria Marini col suo lessico elidecatenaccico, «siamo agli antilopi» e simili: sessismo, state dicendo che le donne belle sono ignoranti, vergogna, patriarcato, pentitevi, redimetevi.

Per non dire dell’adolescente Silvia, che già sarebbe colpevole di sminuire i problemi dei giovani dicendo che il suo guaio principale sono le doppie punte, ma è pure interpretata da un uomo travestito da donna: sessismo, appropriazione culturale, billywilderismo. Come direbbe il personaggio, d’altra parte una millennial: non esiste proprio.

Ho pensato molte volte, in otto puntate, che i poveri trentenni (la generazione Genny Savastano, quella che nun sape mai nu cazz’) non potrebbero guardarlo perché non capirebbero un riferimento che sia uno: la bicamerale, Licio Gelli, Alberto Tomba, le boy band, Funari, l’email come baluardo della modernità.

Poi però è arrivato D’Alema. Il D’Alema di Sabina Guzzanti è un capolavoro che andrebbe usato nelle scuole per spiegare la stagione dell’Ulivo, solo quegli otto sketch messi in fila. Lo schema è sempre lo stesso. La Dandini si collega con D’Alema che si dispera per i cretini da cui è circondato, per quella schifezza di Ulivo, per l’inadeguatezza degli alleati rispetto al suo genio. Poi gli squilla il telefono, ed è sempre Berlusconi, con cui D’Alema tuba, i piccioncini che all’epoca ci sembravano un’iperbole e non una lettura razionale.

In una puntata d’aprile, Massimo consola Silvio. «C’ha ragione, dice se la nave l’avesse affondata lui a quest’ora l’avevamo massacrato. C’hai ragione, t’avevamo massacrato, ma t’impiccavo io con le mie mani. E impiccherei pure Prodi, ma non posso».

Poveri trentenni. Chi glielo spiega, a una generazione convinta che tutto quel che accade nel suo tempo stia accadendo per la prima volta, che una volta il problema dell’immigrazione in Italia era rappresentato dagli albanesi. Che una volta le navi, invece di limitarci a non farle attraccare, le speronavamo. Che quella volta lì, era la primavera del 1997, la nave si rovesciò, e morirono un centinaio di persone.

Ci ripensavo ieri. Non a come spiegarlo ai millennial, figuriamoci, quelli li do per persi. Ma a come rispondere ai miei coetanei, che trasecolano all’idea che goda d’una qualche considerazione Giuseppe Conte, il segnaposto che ora governa col Pd, ma prima governava con Salvini, quel bruto destrorso che ha fatto i decreti sicurezza. Come si fa a ricordarglielo garbatamente, a quelli che a quell’epoca c’erano, che, quando affondammo disinvoltamente un centinaio d’albanesi, al governo c’era l’Ulivo, e che già allora le nostre critiche non dipendevano dalle azioni ma da chi le compiva?

Ho pensato di farlo, per un attimo. Poi, come la Silvia en travesti che oggi non si potrebbe mai mettere in scena, mi sono detta: non esiste proprio.

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