Nel 2021 George Orwell sarà ovunque. Non in senso metaforico: in senso editoriale. La legge sul diritto d’autore ne prevede la scadenza – e quindi la possibilità per tutti di pubblicare gratuitamente testi – nell’anno successivo al settantesimo anniversario della morte dell’autore. E Orwell è morto nel 1950.
Il 2021 sarà quindi un anno orribile per Mondadori, che finora aveva in catalogo in esclusiva La fattoria degli animali e 1984, due testi abbastanza assegnati come letture scolastiche da valere centinaia di migliaia di copie (nel 2021 scadono i diritti d’un’altra istituzione delle letture scolastiche, Cesare Pavese, anche lui morto nel 1950, e finora pubblicato da Einaudi: a casa Berlusconi il 2021 sarà un anno di ristrettezze).
Quando ero giovane, compravo il Guardian solo per leggere Julie Burchill. Enfant prodige del giornalismo inglese (cominciò diciassettenne); controcorrentista della maternità (quando si lasciò col padre di suo figlio, Tony Parsons, gli smollò il bambino da crescere; molti anni dopo, lui ne trasse un bestseller, Uomo con bambino: tutto è bene quel che finisce in diritti d’autore); una che quando doveva metter su una rissa lo faceva via fax, e la controparte era Camille Paglia; una che diceva cose come «Sono stata lesbica per sei settimane» (le cose che si potevano dire senza che intere associazioni consumatori d’identità sessuali t’accusassero di mancanza di rispetto, che nostalgia per il Novecento); una che spiegava il proletariato inglese e la sua smania di loghi da arricchiti scrivendo libri su David Beckham.
Era l’intellettuale che qualunque ragazza intellettualmente curiosa sarebbe voluta diventare, ed era una diva: scrivevano pièce teatrali su di lei, ogni suo articolo veniva dibattuto in un modo che, prima che i social ci rendessero dei dementi che passano le giornate a dibattere di qualunque inezia, non era abituale.
A raccontarlo oggi, non sembra neanche vero che Burchill potesse scrivere sul Guardian. Sul quotidiano più ortodosso rispetto al pensiero presentabile di sinistra, lei così programmaticamente scorretta, così bastiancontraria per vocazione, così tenacemente impresentabile. Erano altri tempi: nessuno aveva come obiettivo principale il rassicurare i lettori.
Poi Burchill s’è scocciata di scrivere, è andata a vivere al mare, ha sposato un ragazzino. Poi è tornata, è risparita, insomma non ha avuto quella continuità che fa di te una firma nota (le firme note non sono quelle che pensano le cose più interessanti: sono quelle più costanti nell’essere parte del paesaggio).
Adesso ha collaborazioni discontinue, ma ha scritto un libro.
Che ottima notizia.
S’intitola Welcome to the Woke Trials: How #Identity killed progressive politics.
Evviva, sono proprio curiosa di leggerlo, dice che esce ad aprile.
Contrordine: il libro non esce più.
Se siete confusi, sappiate che lo sono anch’io.
In breve, è andata così. Il libro raccontava (racconta ancora? Uscirà da qualche parte o sarà come quello del ministro Speranza, di cui ci si scambiano copie carbonare non in commercio?) di quando l’ira funesta dell’internet chiese la cancellazione di Burchill, macchiatasi del crimine di transfobia. Del quale, come sappiamo, può venire accusato chiunque osi dire che se partorisci sei una donna.
Il libro doveva uscire ad aprile, e l’editore è del gruppo Hachette (quelli che avrebbero dovuto pubblicare il libro di Woody Allen, ma poi Ronan Farrow e la sua armata di cancellettisti hanno protestato, gli impiegati della casa editrice hanno scioperato indignati per l’insensibilità dell’imminente pubblicazione, e allora l’editore l’ha revocata; il libro di Allen ha poi trovato un altro editore: tutto è bene quel che finisce in diritti d’autore).
Giorni fa Twitter ha ripescato un articolo in cui un tizio diceva che non avrebbe mai potuto fare l’insegnante perché avrebbe voluto scoparsi i ragazzini. Potete immaginare le reazioni, nell’era del letteralismo. Se anche avessero capito che era una battuta, si sarebbero indignati comunque: non si fanno battute su cose così brutte brutte e gravi gravi (nell’era della suscettibilità, gli unici comici non offensivi sono quelli che parlano dei mariti che non rimettono il tappo al dentifricio).
Burchill ha ben pensato di difendere l’autore dell’articolo, e di farlo dicendo a una tizia musulmana che il suo essere contro la pedofilia è incoerente, considerato che Maometto ebbe una sposa bambina.
Quindi, ora è islamofobica, oltre che transfobica. Quindi, l’editore annuncia che, a causa di quei tweet inaccettabili, non pubblicherà più il suo libro.
Non so davvero perché nel 2021 dovremmo comprare nuove edizioni di Orwell, o vecchie edizioni di Ray Bradbury. Nessuno di loro si è mai spinto così in là da prevedere un mondo in cui un libro il cui tema è la cancellazione di ciò che appare controverso viene cancellato perché l’autrice dice cose controverse.
Nessuno tranne Burchill stessa, che su Facebook ha messo una pagina del suo libro rivendicandone la preveggenza. È un paragrafo che parla di editoria, un settore che in un tempo lontano era meno suscettibile d’una scuola media. E ora, invece, che progresso.
«L’idea che chiunque lavorasse in editoria si sentisse “offeso” da uno dei suoi autori era una volta risibile quanto lo sarebbe una ballerina di lap dance che ha un mancamento perché ha visto le chiappe d’un muratore spuntargli dai pantaloni mentre si chinava. […] Quando dico “protestare” intendo “piangere”, mossa d’elezione dell’Internazionale dei Frignoni Prepotenti […] Un suggerimento: non sarebbe tutto più semplice se coloro che si sentono facilmente offesi da idee e opinioni diverse dalle loro non s’impiegassero in settori la cui specificità professionale sono le diverse idee e le diverse opinioni?».
Quanto m’eri mancata, Julie.