Se l’odore della benzina vi manda in estasi e siete contenti al solo rumore di un motore a scoppio, preparatevi a restare delusi: secondo gran parte degli addetti ai lavori, infatti, il 2021 sarà l’anno dell’auto elettrica. Quando si dice gettare il cuore oltre l’ostacolo.
Fino alla fine dell’anno scorso il boom dell’auto elettrica era considerato poco più che un annuncio, nonostante i massicci investimenti programmati dalle case automobilistiche. Ma l’arrivo della pandemia e il piano di ripresa tracciato con il Recovery Fund – che dovrebbe destinare alla mobilità sostenibile alcune decine di miliardi solo in Italia – sembrano aver sbloccato un’impasse.
Certo la strada è tutt’altro che in discesa; soprattutto guardando agli obiettivi fissati dal Piano nazionale integrato per l’energia e il clima, che punta a mettere in strada circa 6 milioni di auto elettriche entro il 2030 (oggi il parco circolante non arriva a 100 mila vetture). Ma gli impianti fermi e la crisi del comparto auto non hanno soffocato il mercato dell’elettrico, opportunamente sostenuto dagli incentivi del governo.
Secondo i numeri di Motus-E, l’associazione italiana che raggruppa i maggiori operatori della filiera automotive, il 2020 si è chiuso con un’impennata nelle vendite di auto “alla spina”, +251,5% rispetto al 2019: un dato record, con quasi 60 mila auto immatricolate, di cui 32.500 elettriche pure e oltre 27 mila ibride plug-in. Un trend omogeneo in tutta Europa: anche l’Associazione dei costruttori europei (Acea) sottolinea che le immatricolazioni di veicoli elettrici nel terzo trimestre del 2020 sono salite di oltre il 200%, per una quota di mercato di quasi il 10%.
Se a questo si aggiungono le previsioni di lancio di nuovi modelli elettrici e plug-in nel 2021, si capisce perché molti ritengano che questo sia l’anno della consacrazione definitiva. Ma se è indubbio che il futuro della mobilità sarà sempre più elettrificato, è difficile immaginare che da un momento all’altro collegarsi a una presa di ricarica diventi comune quanto fermarsi al distributore di benzina.
Il primo ostacolo è fin troppo noto: il prezzo, dai 30 ai 37 mila euro per un’utilitaria su strada. Troppi per il consumatore medio, che dai dati Federauto può permettersi di spenderne solo 8 mila e non è in grado di cambiare vettura dall’oggi al domani. E benché i costi di produzione, come sempre accade, tendano a ridursi (secondo la banca d’investimento Ubs entro il 2024 produrre auto elettriche costerà esattamente quanto i veicoli tradizionali con motori a combustione), la parità di costo potrebbe non bastare.
Gli anni della motorizzazione di massa stanno finendo, come quelli delle doppie o addirittura triple vetture per ogni famiglia. Chi abita nelle grandi città si affida sempre più spesso ai servizi di trasporto pubblico locale e alla mobilità condivisa (dal car sharing ai monopattini). E non necessariamente ha lo spazio per posteggiare l’auto. Ma avere o meno un garage privato diventerà una delle maggiori discriminanti per l’acquisto di una vettura elettrica o ibrida, in attesa di poter contare su una rete infrastrutturale capillare.
Già, le colonnine. In Italia si contano solo 10 mila infrastrutture con circa 20 mila punti di ricarica, concentrati perlopiù nel Nord e presso città metropolitane (più di metà della rete). Inoltre, la presenza di infrastrutture con potenze superiori a 100 kW è molto limitata, specialmente in autostrada. Il che significa che la maggior parte delle colonnine non permette ricariche rapide in 30 minuti, ma richiede alcune ore di attesa. A cui si aggiunge anche l’incognita dei punti di ricarica non funzionanti.
In Europa c’è chi corre più veloce degli altri: se la penetrazione delle auto elettriche in Italia non arriva al 3%, in Norvegia non è lontana dal 60%, mentre in Svezia si attesta sopra al 20. E ora si stanno muovendo anche mercati di massa, come Francia e Germania (dove si immatricolano in un mese tante auto elettriche quanto in un anno intero in Italia).
I produttori, intanto, sono obbligati a incrementare la produzione di elettrico per rispettare il limite di emissioni imposto dalle norme europee (95 grammi a chilometro in media per veicoli di nuova immatricolazione) ed evitare così multe salatissime: per metà delle case produttrici in Europa, prima del lockdown, si prospettavano sanzioni di circa 400 milioni di euro per il 2020 e di 3,3 miliardi nel 2021.
Ma per produrre auto elettriche servono le batterie. Benché non manchino progetti e studi che seguono altre strade, ad oggi la tecnologia impiegata da quasi tutte le aziende automobilistiche è quella delle batterie agli ioni di litio. E allora occorre fare i conti con chi sta a monte della filiera delle materie prime: i cinesi.
La Cina ha in concessione quasi il 90% dei giacimenti mondiali di cobalto, nichel e litio e controlla anche il know-how del processo industriale. Merito degli sforzi per ridurre l’inquinamento delle sue megalopoli, cresciute a dismisura per effetto delle transizioni dalle aree rurali. Senza contare che Pechino investe da anni in batterie per smartphone e tablet, rifornendo persino i colossi americani della Silicon Valley.
Per tagliare il cordone con l’Asia, la ricerca europea è partita all’inseguimento. Gli investimenti in Europa sono passati dai 3 miliardi del 2017 ai 60 miliardi del 2019 e la Commissione europea ha raccolto il guanto di sfida con l’Alleanza europea delle batterie, un’intesa che coinvolge sette paesi – tra cui l’Italia – in progetti di ricerca e sviluppo. E così la cartina dell’Europa si sta riempiendo di gigafactory, il termine coniato da Elon Musk nel 2013 per la prima fabbrica di batterie di Tesla in Nevada: ce ne sono 15 in fase di progettazione. Ma nessuna in Italia.
L’Italia è poco presente anche nella filiera industriale dell’auto elettrica, con poche eccezioni. Fiat ha infatti avviato solo nel 2020 la produzione della nuova 500 elettrica nello stabilimento di Mirafiori, e ha anche dovuto acquistare “crediti verdi” da Tesla per non incorrere nelle sanzioni Ue sulle emissioni. Se al nuovo modello si aggiungono poi le ibride Jeep Renegade e Compass, il parco auto elettrificato rimane ancora piuttosto misero.
La neonata Stellantis, frutto del matrimonio tra Fiat Chrysler e i francesi di Peugeot, grazie soprattutto ai modelli di Psa già in vendita e a quelli in via di lancio in questi giorni, si propone di sfidare apertamente Volkswagen, anch’essa in ritardo ma che sul piatto dell’elettrico ha messo oltre 70 miliardi di euro. La fusione, inoltre, potrebbe essere il giusto appiglio per lo svecchiamento del parco circolante italiano, il più vecchio d’Europa: 11 anni e mezzo di media, con il 20% dei veicoli che hanno più di 18 anni (da Euro 0 a Euro 2).
Buttare via auto vecchie, inquinanti e pericolose fa bene all’ambiente: se poi la vettura acquistata è elettrica, tanto meglio. Non serve ricordare che in Italia, con il 37% dell’energia elettrica prodotta da fonti rinnovabili, le auto alla spina inquinano meno delle vetture in benzina o diesel (benché l’impronta di carbonio nei processi produttivi delle elettriche sia ancora significativa). Non sempre è così in paesi con un mix energetico meno rinnovabile. Ma, in ogni caso, anche sostituire una Euro zero con una Euro 6 non può che migliorare l’impatto ambientale.
La manovra 2021 ha stanziato 420 milioni proprio con questo obiettivo: 120 milioni per le auto green, 250 milioni per le Euro 6 e 50 milioni per il ricambio dei veicoli commerciali. Incentivi a fronte di rottamazione. È stato gettato un ponte, ma non basterà per arrivare dall’altra parte.
E non basteranno nemmeno l’exploit di Tesla o le ambizioni di Apple ad accelerare un processo che richiede ancora del tempo, specialmente in Italia. Perché non siamo negli anni Sessanta, quando le persone passavano direttamente dalla Lambretta alla Fiat. L’auto elettrica arriverà per tutti, a un certo punto. Ma forse non nel 2021.