A cent’anni dalla vicenda iniziata a Livorno, che aveva già, come è ovvio, una sua storia specifica alle spalle, mi è venuto voglia di tornare su quell’intreccio. Il tema è già stato affrontato molte volte e da penne più acuminate e pesanti della mia, ma è stato fatto in un contesto che risentiva ancora degli echi diretti di quella vicenda e dei suoi sviluppi, mentre ora siamo immersi in un contesto nuovo.
Non solo non ci sono più da qualche tempo il PCI e il PSI, la stessa sinistra cattolica che si è intrecciata con loro è scomparsa, mentre sono nati e si affermano nuovi massimalismi, figli non più del sogno rivoluzionario ma di quello, persino più pericoloso, dell’utopia pseudo intellettuale.
Ormai ci stiamo rendendo conto che siamo entrati in un’età di complicata transizione storica, che richiama per certi aspetti quella fra il Medioevo e l’Età moderna. La recente ondata pandemica ci ha messo di fronte in modo quasi tangibile con questa novità: basti pensare al ruolo che ha assunto l’uso degli strumenti digitali, un cambiamento che richiama quello che avvenne nel XVI secolo con la diffusione della stampa a caratteri mobili.
È ormai aperta la sfida fra chi propugna sconvolgimenti radicali con cui rispondere a quelli in corso e chi ritiene che per rispondere a questi si debba ritornare alla cultura di un sano riformismo che costruisce soluzioni anziché sognare palingenesi.
Vorrei poter contribuire a questa buona battaglia con uno sforzo di interpretazione della nostra storia politica, perché essa non finisca adesso nel vicolo cieco in cui vorrebbero spingerla coloro che la stanno riducendo quasi ad una tragica farsa. Un piccolo atto di fiducia verso tutte quelle generazioni a cui ho fatto lezione (insegnato è un termine troppo impegnativo) nell’università e in altre sedi in cinquant’anni passati su modeste brecce: perché saranno loro a riprendere la bandiera di quello che speriamo non sia più un sorpassato duello a sinistra, ma un impegno a pensare e a realizzare le riforme che servono per un paese migliore.
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Si può dire che con le elezioni del 2018 sia cambiato il quadro della politica italiana. Innanzitutto la sinistra si è trovata a dover fare i conti con una dimensione che univa populismo e demagogia, con sintesi ardite che spesso occhieggiavano alle tesi storiche della sinistra. In definitiva così era per l’appellarsi al “popolo” tradito da chi pretendeva di essere in diritto di guidarlo.
La forza costitutiva della sinistra era sempre stata quella di presentarsi come il movimento che meglio era in grado di confrontarsi con il futuro, interpretato come un futuro di progresso. Ora invece quella che aveva sempre più i caratteri di una grande transizione storica destinata a farci entrare in un’epoca nuova non si presentava come una marcia verso il sole dell’avvenire, ma piuttosto come la costrizione ad addentrarsi in terre incognite.
Il populismo e la demagogia hanno buon gioco a presentarsi come le forme culturali in grado di lenire le angosce del presente. Essi sono veramente l’oppio dei popoli. Cadono in questi territori i tradizionali confini fra la destra e la sinistra, perché si possono miscelare con la massima disinvoltura mantra presi dalla tradizione dell’una e dell’altra.
Non ci interessa qui seguire le vicende della politica italiana, alle prese con il problema di come gestire la trasformazione in coalizioni di governo della nuova geografia del consenso popolare instabile e sfuggente. Il partito di maggioranza relativa, i Cinque Stelle, del tutto prodotto di questo contesto, non aveva remore ad allearsi prima con la forza che sembrava emergente nel populismo demagogico della destra, e poi, consapevoli della debolezza della loro proposta para-ideologica che stava venendo fagocitata dall’alleato, a cambiare di spalla al loro fucile trovando un’intesa con una sinistra che scommetteva di fatto sulla difesa dello status quo.
Ciò che in chiusura di questo excursus su cent’anni di storia vorrei sottolineare è che così finiva, almeno per ora, l’impegno della sinistra alla Riforma.
L’alleanza obbligata con la demagogia pentastellata, peraltro in crisi profonda, costringeva non solo il PD, ma buona parte dei suoi intellettuali a rifugiarsi in un massimalismo che ora non guardava più alla speranza di creare un mondo nuovo, ma che scommetteva sulla possibilità di salvare se non tutto almeno gran parte di quel “mondo di ieri” di cui ogni giorno si constatava il tramonto.
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Tempi grami per la sinistra vera che è un prodotto del razionalismo occidentale, con tutto ciò che questo implica. Lo scoppio nei primi mesi del 2020 della pandemia generata dal virus sino ad allora sconosciuto e denominato poi Covid 19 ha drammaticamente messo davanti agli occhi di tutti quelli che non erano accecati dalla presunzione le fragilità e soprattutto l’obsolescenza di sistemi politici e sociali che ci si rende conto non potranno più sopravvivere come prima.
Inizia un cammino difficile. Rifondare un sistema politico, sociale, economico e culturale dovrebbe essere la sfida più affascinante per il razionalismo della sinistra, quella consapevole di non essere l’incarnazione di un gioco intellettuale in cui il pensiero, o meglio la fantasia, crea l’esistente, ma il contenitore di un impegno sul terreno capace di unire il massimalismo di tutti gli obiettivi di giustizia e solidarietà con il duro spirito riformatore che sa procedere per tappe e tentativi senza mai presumere di rappresentare la Rivelazione che avanza, conscio com’è della esaltante, ma creativa miseria esistenziale degli esseri umani.
tratto da “Sinistre. Un secolo di divisioni”, di Paolo Pombeni, Il Mulino, 2021, pp. 192, euro 15,00