«Vincere la pandemia, completare la campagna vaccinale, offrire risposte ai problemi quotidiani, rilanciare il Paese»: certamente non è (ancora) un programma di governo, ma per intuire l’agenda Draghi occorre partire da qui.
Cosa farà dunque l’ex presidente della Banca centrale europea per traghettare il Paese fuori dalla crisi? La sua frase più celebre «whatever it takes» (e, come non tutti ricordano, «and believe me: it will be enough») ci racconta molto dell’uomo incaricato di formare il prossimo governo: per scommettere tutto sulle proprie parole ci vuole coraggio, ma anche la capacità di costruirsi attorno alleanze e consenso, per evitare che le parole rimangano inascoltate. Ma non è d’aiuto per capire quali potrebbero essere le mosse e le decisioni economiche del probabile esecutivo a guida Draghi. Più prezioso è conoscere le sue convinzioni.
Il Draghi-pensiero
L’economia è una scienza basata sull’evidenza empirica, su analisi ed equazioni matematiche. Ma cerca risposte a qualcosa di molto più imprevedibile rispetto alla maggior parte delle altre discipline: il comportamento delle persone. E dunque le convinzioni e i valori di chi la pratica sono fondamentali per capirne le argomentazioni; e per quelli che – come Draghi – si accingono a buttarsi nell’arena politica, anche per tentare di anticiparne le decisioni e i provvedimenti.
Il Draghi-pensiero è meno intellegibile di quanto si pensi. Le sue idee rientrano nel cosiddetto «socialismo liberale», come lui stesso aveva chiarito in un’intervista del 2015 concessa al settimanale tedesco Die Zeit. Le sue politiche monetarie accomodanti hanno garantito nuovi spazi fiscali ai Paesi europei. E a partire dal discorso al simposio di Jackson Hole dell’estate del 2014 ha insistito, con crescente veemenza, perché i governi spingessero sull’acceleratore della spesa pubblica per ridurre la disoccupazione.
“Supermario” può però essere raccontato anche da tutt’altra ottica. «Vile affarista […] liquidatore» lo aveva apostrofato l’ex presidente della Repubblica Francesco Cossiga nel 2008. O «apostolo delle élite», come lo ha recentemente definito Alessandro Di Battista. L’anima liberale in effetti Draghi non la nasconde affatto: negli anni Novanta è stato uno dei più convinti promotori (e fautori) della campagna di privatizzazioni delle aziende pubbliche.
Da governatore della Banca d’Italia non ha mancato di esortare i governi Berlusconi a ridurre la spesa pubblica e porre attenzione al debito. Nel 2011 ha firmato insieme all’allora presidente della Banca centrale europea Jean-Claude Trichet una lettera inviata al governo italiano in cui raccomandava, tra l’altro, di «valutare una riduzione significa dei costi del pubblico impiego, […] se necessario riducendo gli stipendi».
L’anno successivo, pochi mesi prima di porre fine alla speculazione finanziaria contro l’Euro con il suo discorso a Londra, dichiarò al Wall Street Journal che «non ci sono alternative al consolidamento fiscale» (un modo gentile per chiamare l’austerity), che dopo un primo periodo di crisi «può riattivare la crescita economica».
I valori di Mario Draghi non possono essere insomma essere facilmente ascritti a una casella politica ben definita. E questo è già un primo elemento di forte novità, nell’arena politica a cui siamo abituati in cui l’istantaneità della comunicazione è anteposta alla complessità del pensiero.
L’agenda Draghi
Quali politiche pubbliche e decreti porterà all’Italia il pantheon valoriale di Mario Draghi, in un mondo sconvolto dalla pandemia e dalla peggiore crisi economica dal Dopoguerra? Per questo esercizio di preveggenza qualche indizio si può scovare in due contributi più recenti: il suo intervento al meeting di Rimini dello scorso agosto e un rapporto di due mesi fa redatto dal G30, un think tank di consulenza su questioni di economia monetaria e internazionale co-presieduto proprio da Draghi.
Il mondo sta infatti velocemente mutando e le sue parole affidate al Financial Times a marzo, quando incitò i governi ad aumentare considerevolmente il debito pubblico per ripianare le difficoltà economiche del settore privato, sembrano ormai appartenere a un’epoca passata. Con l’arrivo dei vaccini si avvicina la fine della pandemia – almeno queste sono le prospettive (e le speranze) – e, come ha più volte sottolineato Draghi, l’alta spesa pubblica non sarà più sostenibile a breve.
Cosa significa nel concreto? È probabile che un primo cambiamento rispetto al Conte II sia sulla scelta di quali aziende aiutare con i ristori economici. Nel report del G30 di metà dicembre Draghi ha infatti sottolineato che è finita la fase degli aiuti a pioggia (che lui stesso aveva auspicato a marzo).
I governi, si legge, devono iniziare a scegliere chi aiutare con i soldi dei contribuenti che non sono infiniti: vanno quindi escluse le aziende che non avrebbero bisogno dei sussidi perché in salute, o che non hanno futuro economico nel mondo post-Covid, e che dunque falliranno immediatamente chiuso il rubinetto statale. Le cosiddette aziende “zombie”. E nessun politico italiano si è mai sognato di dire che alcuni negozi o artigiani destinati al fallimento è meglio che chiudano presto per concentrare le risorse pubbliche su chi ce la può fare. Tanto che in Italia, come nel resto d’Europa, nella peggiore recessione nella storia della Repubblica le procedure di bancarotta sono crollate di diverse decine di migliaia rispetto al 2019 (dati Eurostat).
Discorso simile per il mercato del lavoro. Sempre nel documento del G30 firmato anche da Draghi è scritto chiaro e tondo che i governi dovrebbero «incoraggiare» non solo le trasformazioni aziendali ma anche «aggiustamenti nel mercato del lavoro». Che tradotto significa lasciare che i dipendenti delle realtà in crisi vengano licenziati, per permettere il risanamento e il rilancio aziendale. Certo, con una rete di protezione per permettere a questi lavoratori di trovare una nuova occupazione riqualificandosi.
È la teoria della “distruzione creativa”, per cui il mercato distrugge le realtà meno efficienti e rialloca le risorse – di capitale e umane – dove più servono. Fumo negli occhi dei politici italiani, fino a ora. L’Italia è stata l’unico paese in Europa ad adottare il blocco quasi totale dei licenziamenti, e ha speso decine di miliardi di euro in cassa integrazione (andata anche, in parte considerevole, ad aziende non in crisi, Upb dixit). Se Draghi vorrà cambiare rotta anche su questo dovrà impegnarsi a non rinnovare il blocco dei licenziamenti, come già chiedono invece i sindacati, e calmierare l’uso della cassa integrazione. E per trovare il consenso per riuscirci potrebbe accompagnare a queste misure la riforma degli ammortizzatori sociali, promessa da mesi anche dalla ministra in carica Catalfo ma mai attuata.
Ma è sul Recovery plan che Draghi è chiamato a fare il miracolo. L’Italia per ora è molto indietro rispetto ad altri Paesi europei e la bozza ufficiale approvata dal governo Conte non contiene target, cronoprogrammi e riforme richiesti dall’Europa. Il capitale politico di Draghi aiuterebbe ovviamente nella fase di negoziato con Bruxelles, che durerà diversi mesi. Ma Draghi, a leggere le sue dichiarazioni passate, ha anche le idee chiare su cosa deve essere inserito nel piano italiano. Il 15 dicembre, in un colloquio con alcune testate giornalistiche, ha chiesto che i governi usassero i fondi europei soprattutto per investimenti «ad alto rendimento», che cioè producano un ritorno maggiore.
È possibile quindi che la quota destinata a bonus e incentivi si riduca ancora e che misure come il Cashback di stato (che costa 4,7 miliardi in tre anni) siano destinate al dimenticatoio. E nel piano potrebbe tornare prepotentemente centrale la spesa in istruzione: se è vero che «privare un giovane del futuro è una delle forme più gravi di diseguaglianza», come ha affermato Draghi al meeting di Rimini della scorsa estate, è chiaro che l’investimento in istruzione e ricerca non possa essere marginale. E per ora – come ha calcolato Sky TG24 – la quota prevista dall’Italia nel Recovery plan è quasi un terzo rispetto a quanto intende spendere la Spagna, per esempio.
Il Recovery plan è fatto però anche di riforme. E non va dimenticato che Mario Draghi è stato uno dei più insistenti promotori delle riforme strutturali per i Paesi europei mentre sedeva sulla poltrona di governatore della Banca centrale europea. Riforme che possono alimentare la produttività, ridurre la burocrazia inutile, garantire tempi certi dei processi, aumentare la qualità di scuola e università.
Ci si può dunque attendere che farà delle riforme un suo marchio di fabbrica, o almeno tenterà. Dovrà infatti relazionarsi con un Parlamento che invece di riforme ne ha viste e approvate ben poche in questa legislatura. L’ormai ex premier Giuseppe Conte sembrava provare un’allergia all’idea di modificare lo status quo, che – si sa – provoca scontenti e dissenso in chi gode di grandi o piccole rendite di posizione.
Ma la storia di Draghi parla per lui: dovunque è andato, non ha mai avuto timore di portare innovazione, a partire dagli aspetti organizzativi. Del resto fu proprio con lui che al Tesoro fecero ingresso i primi personal computer nel 1985, come hanno raccontato Alessandro Aresu e Andrea Garnero su Limes. E fu sempre lui nel 2008, per accaparrarsi i migliori cervelli alla Banca d’Italia, a mandare i propri funzionari ad assumere nuove reclute direttamente sul job market americano, dove sono contese le migliori giovani menti destinate alla ricerca economica, “rottamando” la pratica dei concorsi pubblici.
Possiamo dunque attenderci che le parole chiave che guideranno l’agenda economica del suo esecutivo, se otterrà la fiducia del Parlamento, saranno tra queste: riforme strutturali per rilanciare la produttività e protezione di chi è stato colpito dalla crisi, rilancio della crescita e lotta alle disuguaglianze esacerbate dalla pandemia, responsabilità sui conti pubblici e spesa pubblica mirata agli investimenti. Dove volgerà il pendolo lo determinerà, molto probabilmente, la maggioranza politica che gli darà la fiducia e con cui Mario Draghi dovrà fare i conti. Anche quelli pubblici.