Si continua a temere per la vita dei due ceceni Lgbt, il 17enne Ismail Isaev e il 20enne Salekh Magomedov (si tratta di un gay e di una persona trans), che il 4 febbraio sono stati arrestati nel loro appartamento di Nižnij Novgorod, caricati su un auto e ricondotti forzatamente in patria. I due giovani vivevano da luglio nella popolosa città della Russia europea, dove erano riparati grazie all’aiuto di Russian Lgbt Network: in Cecenia, solo tre mesi prima, erano stati detenuti e torturati come moderatori di Osal Nakh 95, canale Telegram di opposizione al presidente Kadyrov, e come persone Lgbt per poi essere costretti a girare un umiliante filmato di scuse. Nel video avevano dovuto fra l’altro dichiarare di «non essere uomini».
La nuova Via Crucis di Ismail e Salekh li ha visti vagare, in questi giorni, da un posto all’altro senza che essi abbiano finora mai potuto incontrare legali e parenti. Condotti prima nel rajon di Gudermes, nel capoluogo omonimo sono stati sottoposti, il 6 febbraio, a un primo interrogatorio sommario e rilasciati per essere nuovamente arrestati subito dopo. Dopo averli intimiditi e spinti a rifiutare l’assistenza dell’avvocato Alexander Nemov, componente del team legale di Russian Lgbt Network, gli agenti di polizia hanno trasferito i due giovani nel villaggio di Sernvodskaja. Solo da qualche giorno si è appreso che Ismail e Salekh sono presso il centro di detenzione temporanea del distretto di Urus-Martan.
Il 7 febbraio siamo anche venuti a conoscenza del reato loro contestato. Akhmed Dudayev, consigliere del presidente Ramzan Kadyrov e responsabile del Dipartimento per l’informazione e la stampa, ha infatti assicurato che i due detenuti avevano «confessato di aver prestato aiuto a un componente di un gruppo armato illegale», ucciso durante un’operazione delle forze antiterrorismo il 20 gennaio. Ma, come subito replicato da Mark Alekseev, altro avvocato di Russian Lgbt Network giunto proprio domenica 7 in Cecenia, «la confessione è stata molto probabilmente ottenuta attraverso minacce e pressioni». A Ismail e Salekh, in realtà, non si perdonano la fuga in luglio e il supporto dell’organizzazione russa per i diritti delle persone lesbiche, gay, bisessuali e trans.
Le proteste di Russian Lgbt Network, attraverso le argomentazioni di Veronika Lapina, hanno trovato fortunatamente accoglienza l’8 febbraio presso la Corte europea dei diritti dell’uomo. Strasburgo ha infatti ordinato alla Federazione Russa di adottare misure urgenti nei riguardi dei due giovani se effettivamente in stato di custodia: controlli sanitari da parte di professionisti indipendenti e accesso a legali e parenti stretti (genitori e/o fratelli).
A Linkiesta Yuri Guaiana, componente della segreteria nazionale di Più Europa e presidente dell’Associazione radicale Certi Diritti, ha osservato come «dopo l’avvelenamento e l’arresto del leader dell’opposizione Alexey Navalny, nonché la brutale repressione delle manifestazioni dei suoi sostenitori in tutto il Paese, il regime di Putin conferma il proprio disprezzo per i diritti umani fondamentali con l’arresto e l’invio in Cecenia dei due giovanissimi ragazzi gay, già torturati in aprile. Ora rischiano letteralmente la vita senza avere neanche accesso ai propri legali. Se la CEDU si è già mossa ordinando alla Russia di garantire ai giovani il diritto alla salute e alla difesa, occorre aumentare urgentemente la pressione per salvare le loro vite».
Per Guaiana – che segue da quattro anni la drammatica situazione delle persone Lgbt+ nella Repubblica della Federazione russa e ha dato alle stampe nel 2018 l’importante saggio “Il pogrom anti-LGBT in Cecenia” (contenuto nel volume collettaneo “Il lungo inverno democratico nella Russia di Putin” con prefazione di Emma Bonino) – è necessario ricordare «che dal 2017 sono oltre 200 le persone arrestate e torturate per il solo sospetto di essere Lgbt e non è la prima volta che delle persone vengono riportate in Cecenia solo per scomparire o morire. L’Unione Europea e l’Italia facciano sentire la loro voce al più presto per chiedere l’incolumità dei due giovani e che vengano immediatamente rilasciati».
È stato proprio nel 2017 che ha avuto luogo in Cecenia la prima ondata di arresti, torture e uccisioni di persone omosessuali o percepite come tali. Elena Milashina ne informò il mondo con un articolo, comparso il 1° aprile di quell’anno su Novaya Gazeta. La giornalista documentò sparizioni forzate e torture di oltre 100 uomini perché sospettati di essere gay o bisessuali e l’uccisione di almeno tre di essi.
Sin da subito Ramzan Kadyrov ha negato l’esistenza di persone Lgbt nel Paese. Il 15 luglio 2018 aveva così risposto in un’intervista con il reporter della Hbo David Scott: «Questo è un nonsense. Non abbiamo quel genere di persone qui. Non ci sono gay. Se ci fossero, portateli in Canada. Lode ad Allah». Solo pochi mesi dopo avrebbe dato il via alla seconda ondata persecutoria con due persone torturate a morte e 40 detenute. A darne notizia, il 28 dicembre di quell’anno, sempre Novaya Gazeta ma anche Russian LGBT Network attraverso l’allora presidente Igor Kochetkov.
Sulla seconda ondata chiesero subito chiarimenti all’allora ministro degli Esteri, Enzo Moavero Milanesi, Alessandro Zan e Ivan Scalfarotto rispettivamente con un’interrogazione (17 gennaio 2019) e un’interpellanza parlamentare (22 gennaio 2019). Quest’ultima cofirmata da 30 parlamentari del Pd.
In entrambi i casi le risposte giunte dalla Farnesina furono ritenute dai proponenti insufficienti e inadeguate. Anzi, nel caso dell’interpellanza urgente si assistette alla scena indegna del sottosegretario Ricardo Antonio Merlo, che, dando lettura a Montecitorio della risposta preparata dal dicastero, ne annacquò il testo omettendone arbitrariamente interi passi.
Ovviamente dalla Cecenia giungevano intanto le solite geremiadi negazionistiche di chi come Dzhambulat Umarov, ministro dell’Informazione, liquidava detenzioni, torture e uccisioni come «una totale fesseria. Non seminate i semi della sodomia nella benedetta terra del Caucaso. Non cresceranno come nella pervertita Europa. Lasciate in pace la Repubblica cecena».
Ma già alla fine del 2018 la realtà drammatica della situazione (e non solo per le persone Lgbt ma anche per dissidenti locali, giornalisti e attivisti per i diritti umani in Cecenia) era stata appurata, con dati alla mano, dalla commissione di tre esperti costituita dall’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa (Osce). L’Italia – si era sempre nel Conte I – fece allora una figura pessima, rimarcata da Della Vedova e Scalfarotto. A differenza di 16 Stati membri dell’Osce, tra cui Stati Uniti, Germania, Francia, Regno Unito, il nostro Paese non aveva infatti aderito alla richiesta di avviare per la questione cecena il Meccanismo di Mosca, grazie al quale è stato poi possibile condurre l’accennata inchiesta internazionale.
Un posizionamento, quello sulla questione Lgbt cecena, che dovrebbe mutare, lo si spera, col governo Draghi. Non resta che attendere e vedere.