Forse paradossalmente solo in questo 2021 di ripresa e rimbalzo dell’economia, campagna vaccinale permettendo, si riuscirà ad avere un’idea di quanto sia stato effettivamente horribilis l’anno di grazia 2020.
Cioè quando sarà terminato il blocco dei licenziamenti, e allora dal purgatorio della cassa integrazione per alcuni si aprirà il paradiso del ritorno al lavoro, mentre per altri l’inferno della disoccupazione, che per molti è semplicemente inattività, perché le speranze di trovare un impiego sono troppo basse.
Eppure anche adesso che finalmente sono noti i dati sul lavoro del 2020 appare chiaro quanto, anche al lordo di blocco dei licenziamenti e CIG, la pandemia abbia fatto male a un mercato già fragile. E quanto queste ferite siano distribuite in modo diseguale e quindi ancora più doloroso.
Nell’ultimo trimestre del 2020 il numero degli occupati è sceso a 22 milioni e 889 milioni, 435 mila meno di quello corrispondente del 2019, l’ultimo senza il Covid.
Si tratta del peggior crollo mai avvenuto nonostante nelle precedenti crisi non fossero presenti gli ammortizzatori esistenti ora. E arriva dopo 6 anni di crescita del numero dei lavoratori, a seguito di una ripresa che anzi si era fatta sentire più nel mondo del lavoro che nelle statistiche del Pil.
Dati ISTAT
La riduzione dell’occupazione è stata diseguale, si diceva. Innanzitutto a livello geografico, ma in un modo che forse non ci si attendeva. Al Nord i lavoratori sono scesi di 249.900 mila unità, ovvero del 2,42%, decisamente più che al Centro, -62.700 e -1,26%, e che nel Mezzogiorno, -77.700 e sempre -1,26%.
Dati ISTAT
Si tratta di un divario che stupisce, anche considerando che proprio al Nord vi sono più dipendenti a tempo indeterminato protetti da cassa integrazione e blocco dei licenziamenti.
Che sia spiegabile con la maggior presenza della piaga del lavoro nero proprio nel Mezzogiorno? Appare molto credibile che in presenza di una crisi per un bar, un cantiere, un negozio, sia più facile e indolore lasciare a casa prima di tutto il lavoratore irregolare, senza alcun fastidio burocratico, al massimo, se le casse lo consentono, con una buonuscita brevi manu, arrivederci e ci vediamo dopo la pandemia. E solo dopo tocca agli altri lavoratori.
I lavoratori in nero spesso giovani, immigrati, meno istruiti, già di per sé più deboli, sono come un ammortizzatore. Non esistono come occupati, non esistono come disoccupati, sono invisibili anche alle statistiche.
Altre tipologie di disuguaglianza sorprendono meno. Rispetto a un anno prima, a diminuire di più è l’occupazione dei più giovani, -6,05% in un anno, i più fragili a livello lavorativo. E tuttavia in passato, nel periodo di crisi tra il 2008 e il 2013, era andata per due volte anche peggio.
Mai era invece stata così nera la situazione per un segmento che in realtà negli ultimi anni era diventato tra i più svantaggiati, essendo tagliati fuori sia dagli incentivi per i giovani sia dalle garanzie per chi ha cominciato a lavorare nell’epoca d’oro del posto fisso, ovvero i 35-49enni.
Complice, questo va detto, la dinamica demografica sfavorevole i lavoratori di questa età sono diminuiti del 2,95% tra fine 2020 e fine 2019. Non c’era mai stato un calo simile finora, così come il numero di occupati con più di 50 anni, costantemente in salita, non è mai salito così poco come l’anno scorso.
Dati ISTAT
Ma forse per pochi il detto piove sul bagnato si rivela più azzeccato che per gli immigrati. C’era una volta in cui l’Italia era un’eccezione europea per il fatto di avere un tasso di occupazione tra gli stranieri più alto, anche molto più alto, che tra gli italiani.
Del resto pochi immigrati, mediamente più giovani della media, possono permettersi di essere inattivi, in meno studiano, in meno hanno coniugi che possono mantenerli, in tanti sono uomini o donne giunti nel Paese da soli.
Erano e sono però anche più sacrificabili, impiegati nei settori che più hanno vissuto la crisi del 2008-2013 e l’attuale. E già dopo quella finanziaria il loro tasso d’occupazione era crollato di quasi 10 punti, molto più di quello degli italiani.
Oggi il divario si è addirittura invertito. La percentuale di cittadini stranieri con un lavoro è passato in un anno dal 61% al 57,3%, mentre tra gli italiani calava dal 58,8% al 58,2%.
Dati ISTAT
Assunti nel commercio, nel turismo, nella ristorazione, nei servizi accessori come le pulizie, spesso non assunti ma autonomi, hanno subito più degli italiani, anche se se ne parla poco, gli effetti economici della pandemia.
E tra gli ultimi ancora più ultime si rivelano essere le donne straniere, soprattutto coloro che vivono nelle aree già più povere del Paese, nelle regioni del Mezzogiorno. Qui è massimo il divario tra gli italiani e immigrati. Il tasso di occupazione delle donne straniere crolla nel Sud e nelle Isole del 6%, quello delle donne con cittadinanza italiana solo del 0,4%.
Dati ISTAT
E queste donne immigrate sono probabilmente tra coloro che formano quel calo del 4,3% del tasso di occupazione tra i giovani tra i 15 e i 34 anni senza un’istruzione, quelli che appunto soffrono di più i rovesci della crisi.
Dati ISTAT
Volendo guardare il bicchiere mezzo pieno queste categorie, i giovani, gli stranieri, sono quelle che con la ripresa normalmente riescono maggiormente a farsi assumere, perché almeno nella prima fase, più fragile, le aziende cercano una forza lavoro flessibile e da pagare poco. È già accaduto.
La sfida diventa poi quella della stabilizzazione di tali persone, che passa attraverso la formazione, un rafforzamento delle competenze, un incremento della produttività delle aziende per renderle più forti di fronte ai marosi del mercato e meno prone all’utilizzo di personale “usa e getta”. Ma questa fase sembra ancora di là da venire. Se ne parlerà forse nel 2022, vaccini permettendo.