Un giudice del Supremo Tribunale Federale (Stf) brasiliano ha annullato le condanne dell’ex presidente Lula che potrebbe dunque candidarsi per le elezioni presidenziali nel 2022; un sondaggio dice che potrebbe prendere il 50% dei voti. Sono notizie che meritano un commento, in relazione alla chiara parentela intellettuale che c’è stata tra la Mani Pulite italiane e la Lava Jato brasiliana, e alle curiose contraddizione di coloro per i quali certi metodi giudiziari vanno male se applicati a Lula ma vanno invece benissimo per Berlusconi o per Craxi. Ma prima è opportuno fare qualche precisazione.
La prima è che l’ex-presidente non è stato scagionato. Semplicemente, il giudice Edson Fachin ha stabilito che c’era stato un difetto di giurisdizione. Lula era stato condannato per due processi. Uno, in primo grado presso la 13ª Vara da Justiça Federal di Curitiba, poi in secondo grado presso il Tribunale Regionale Federale della Quarta Regione, per un appartamento «Triplex» nella località balneare di Guarujá, Stato di San Paolo. L’altro, pure in primo grado a Curitiba, relativo alla ristrutturazione di una casa di campagna nella località di Atibaia: formalmente di proprietà dell’imprenditore Fernando Bittar, ma secondo il Ministero Pubblico Federale era Lula il proprietario reale e l’utente principale.
Entrambe sono state considerate nelle condanne alla stregua di mazzette da parte della società di costruzioni Oas, e nel secondo caso anche del colosso delle infrastrutture Odebrecht e dell’ora fallito conglomerato Schahin. Secondo Fachin, tutti questi processi avrebbero dovuto invece essere fatti presso il Tribunale del Distretto Federale di Brasilia.
Sempre al Tribunale Federale di Brasilia dovranno essere trasferiti anche i due processi ancora in corso presso il Tribunale Federale di Paraná, e relativi al’Istituto Lula creato dall’ex-presidente dopo aver lasciato il potere. Lula è accusato di aver ricevuto, sempre come mazzetta dalla Odebrecht, il terreno dal valore di 12 milioni di reais – poco più di 2 milioni di dollari – su cui è stata edificata la sede dell’Istituto a San Paolo. Sempre la Odebrecht avrebbe comprato un appartamento a São Bernardo do Campo. La difesa di Lula non nega, ma sostiene che le donazioni non sono state in cambio di alcun favore ricevuto da Lula come presidente. Ancora la Odebrecht è in mezzo all’altro processo: 4 donazioni da un milione di reais l’una fatte all’Istituto Lula tra il 2013 e il 2014. Anch’esse secondo l’accusa sono state in cambio di favori per ricevere contratti dalla società petrolifera di stato Petrobras, e per la difesa non costituiscono reato.
In effetti neanche la proprietà di Guarujá è mai appartenuta formalmente a Lula, secondo il Pubblico Ministero, perché quando la vicenda era stata resa pubblica il passaggio era stato bloccato. Il 12 luglio 2017 per la storia del «Triplex» Lula fu condannato a 9 anni e 7 mesi per corruzione passiva e riciclaggio di denaro dall’allora giudice Sérgio Moro: un ammiratore del modello Tangentopoli che poi è diventato ministro di Bolsonaro, anche se da ultimo ci ha litigato di brutto e si è dimesso sbattendo la porta. La ovvia polemica è sul fatto che Bolsonaro è stato eletto in una competizione a cui Lula non aveva potuto presentarsi proprio per via della condanna.
Il 24 gennaio del 2018 la condanna fu confermata dal Tribunale Regionale Federale della Quarta Regione, e anzi aumentata a 12 anni e un mese. Il 5 aprile 2018 Moro decise per Lula il carcere, con condizioni speciali dovute alla dignità di ex-presidente. Lula si presentò il giorno dopo. Il 6 febbraio 2019 la giudice Gabriela Hardt gli diede altri 12 anni e 11 mesi per la storia di Atibaia. Il 23 aprile 2019 il Supremo Tribunale di Giustizia confermò la prima condanna, ma riducendola a 8 anni, 10 mesi e 20 giorni. L’8 novembre del 2019 il Stf decise la scarcerazione, dopo 580 giorni di carcere. La condanna restava, ma la corte suprema brasiliana spiegò che in carcere ci si deve andare solo dopo che tutte le possibilità di ricorso sono esaurite. Tra i ricorsi ancora in ballo c’era appunto quello sulla competenza del tribunale di Curitiba. Adesso è stato accolto, e si comincia da capo.
Attenzione, però. Anche contro la decisione di Fachin è possibile un appello da parte della Procura Generale della Repubblica. A quel punto a decidere sarebbe la Seconda sala della Corte, in cui Fachin non potrebbe prendere la decisione più da solo, ma dovrebbe farlo assieme ai magistrati Carmen Lúcia, Gilmar Mendes, Ricardo Lewandowski e Kassio Nunes Marques. E se anche l’annullamento non venisse a sua volta annullato, fino alle elezioni presidenziali dell’ottobre del 2022 ci sarebbe tutto il tempo perché i quattro processi ricominciati di nuovo possano produrre nuove condanne.
Davvero, nel caso, Lula sarebbe rieletto a furor di popolo? In effetti tra il 2002 e il 2010 è stato un grande presidente, alla testa di ampie coalizioni che lo caratterizzavano come leader di unione. Ma proprio a partire della concessione dell’asilo a Cesare Battisti, in pratica ultimo suo gesto da capo dello Stato, Lula ha iniziato a perdere questa immagine, ed è diventato personaggio sempre più divisivo. Un po’ per la guerra che gli hanno fatto, certo; un po’ per l’esplodere di una crisi economica e giudiziaria che ha coinvolto il suo partito: ma molto anche per una sorta di radicalizzazione senile. A partire dall’appoggio senza se e senza ma al dittatore Nicolas Maduro, che lo ha portato a auspicare addirittura l’arresto di Juan Guaidó.
Insomma, è vero che i sondaggi alle ultime presidenziali lo davano in testa al primo turno, se gli fosse stato permesso di candidarsi. Però predicevano anche gravi problemi per il secondo turno. Alle ultime amministrative, è vero, Bolsonaro è andato male: non tanto per un calo di popolarità, che anzi con la distribuzione capillare di sussidi per l’emergenza Covid era pure in ripresa; ma perché oltre che con Moro ha rotto col suo stesso partito e non è riuscito a lanciarne un altro. Praticamente i suoi protetti sono andati al voto allo sbando.
Anche il Partito dei lavoratori è andato male, proprio perché ha impostato tutta la sua campagna sullo slogan «giustizia per Lula» che ha stufato l’elettorato. Insomma, all’ultimo voto hanno finito per vincere tutti i candidati di sinistra, centro e destra, eccetto Bolsonaro e Lula. Con la pandemia che in Brasile appare sempre più fuori controllo, il quadro continuerà a evolversi rapidamente. E il ritorno di Lula in gioco è destinato a rimescolarlo.
È altamente probabile la candidatura alle presidenziali proprio di Moro: cioè l’uomo che prima ha mandato Lula in galera, poi è stato ministro della Giustizia e della Sicurezza Pubblica di Bolsonaro, e infine ha rotto con lui. Subito dopo aver guidato una rivolta di ministri che aveva messo in minoranza nel suo Gabinetto il presidente ostile al lockdown, l’ultimo scontro era stato sulla destituzione del capo della Polizia Federale. Non è corretto dunque continuare a associare Moro a Bolsonaro.
C’è però l’inchiesta pubblicata il 9 giugno 2019 dal giornale online The Intercept Brasil in base a intercettazioni delle chat private del giudice Moro nell’App Telegram, dove il giudice suggerisce ai procuratori della Lava Jato chi condannare nel processo a Lula. Ciò a ovviamente ha suscitato più di un interrogativo sulla sua imparzialità, anche se un garantismo basato sulla pubblicazione di intercettazioni private da l’idea di un groviglio in cui è veramente difficile discernere torti e ragioni.
Nella valutazione bisogna poi includere il fatto che di tutti i presidenti eletti dal popolo in Brasile da quando fu reintrodotta l’elezione diretta solo Fernando Henrique Cardoso ne è uscito senza problemi. Fernando Collor de Mello e Dilma Rousseff sono infatti finiti sotto impeachment, e Lula addirittura in carcere. Come d’altronde Michel Temer, che era subentrato a Dilma. Insomma, alcuni problemi in Brasile ci sono, al di là del personaggio Lula e dell’accanimento di Moro.
Il 49enne di origini italiane, uno dei due unici magistrati brasiliani esperti in crimini finanziari, oggetto di un culto popolare per cui gli hanno dedicato addirittura una canzone, ha un aspetto glamour, piace alle donne ed è appassionato di ciclismo, Moro è stato però sempre visto come il fumo negli occhi dall’Ordine degli Avvocati, che lo ha accusato di abusare del carcere preventivo come strumento per estorcere confessioni. E di aver premiato chi si pentiva e tirava in mezzo altra gente senza controllare troppo la verosimiglianza delle denunce. E di aver ignorato sistematicamente la competenza territoriale; appunto, il nodo che è ora venuto al pettine. E di aver trescato senza scrupoli con la stampa per diventare un divo. E di aver ordinato video non autorizzati dei colloqui di detenuti con avvocati e familiari. Una volta si rinnovò per ben 15 volte un permesso di intercettazione telefonica, mentre la legge brasiliana autorizza 15 giorni rinnovabili una volta sola. Un’altra volta mandò la Polizia Federale a spaventare i dipendenti delle compagne aeree per farsi dire dove si trovavano gli avvocati di un accusato.
Lo stesso Consiglio Nazionale di Giustizia lo mise sotto osservazione, per i metodi assolutamente non ortodossi utilizzati. A noi italiani suona familiare? Certamente, perché Moro, dopo essersi laureato nel 1995 all’Università Statale di Maringá, essere divenuto nel 1996 giudice federale ed essersi perfezionato ad Harvard, ha effettivamente studiato con attenzione il modello italiano di Mani Pulite, ed è rimasto conquistato dai loro metodi. La passione è d’altronde ampiamente ammessa: nel 2004 su Mani Pulite scrisse un saggio su una rivista giuridica brasiliana, e nel 2016 ha scritto una prefazione a Operação Mãos Limpas: A verdade sobre a operação italiana que inspirou a Lava Jato: traduzione «adattata» per i brasiliani del libro di Gianni Barbacetto, Peter Gomez e Marco Travaglio.
In una intervista di alcuni anni fa, Gherardo Colombo spiegò all’autore di queste note di aver conosciuto Moro personalmente, assieme a Piercamillo Davigo: «A un dibattito dopo il quale abbiamo avuto l’occasione di cenare assieme». Va detto che essendo già allora in fase di ripensamento su Tangentopoli Colombo ci disse di avergli consigliato di non strafare. «Ho dovuto spiegargli che, per lo meno in base alla nostra esperienza italiana, è estremamente difficile riuscire a cancellare la corruzione con il mero strumento penale». E confessò anche di vedere con preoccupazione il modo in cui i brasiliani sembravano sviluppare un tipo di passioni simili a quelli dei fan italiani di «Mani Pulite».
Se tra Mani Pulite e Lava Jato ci sono somiglianze e anche una filiazione ammessa, però, non bisogna dimenticare anche qualche differenza. In Italia, in particolare, il principale partito di sinistra, erede del Partito comunista italiano, è stato una delle forze politiche che più ha profittato per la distruzione giudiziaria del pentapartito, assieme alla destra di Lega ed ex-Movimento sociale italiano. In Brasile, al contrario, il principale partito di sinistra attraverso Lula è stato vittima principale. Il risultato è una curiosa discrasia, per cui la copia brasiliana è stata condannata da italiani che invece l’originale lo avevano in qualche modo esaltato.
Nell’aprile del 2018, ad esempio, uscì un appello secondo cui «da ormai oltre quattro anni in Brasile è in corso un’iniziativa giudiziaria che ha coinvolto l’ex Presidente Lula e che rischia oggi di precipitare la democrazia brasiliana in una crisi grave e preoccupante». Primo firmatario Romano Prodi che volle come suo minstro proprio Antonio Di Pietro, chiaro modello di Sérgio Moro. Secondo firmatario del documento volto a esprimere «una grande preoccupazione ed un vero e proprio allarme per il rischio che la competizione elettorale democratica in un grande Paese come il Brasile venga distorta e avvelenata da azioni giudiziarie che potrebbero impedire impropriamente ad uno dei protagonisti di prendervi parte liberamente», Massimo D’Alema: colui che volle far eleggere Di Pietro senatore nel collegio del Mugello nel 1996.
Ancora più clamoroso, se vogliamo, il grido «Solidarietà per Lula» che è stato lanciato a ripetizione da Beppe Grillo. «Lula vale a luta» è stato uno slogan pure ripetuto dal teorico dell’«onestà onestà», del «vietato candidare inquisiti» e del «due mandati e a casa», per spiegare che impedire a un leader politico di candidarsi a presidente la terza volta per via di sentenze giudiziarie equivale «a un golpe».
E qui ogni commento ulteriore, veramente, diventa superfluo.