A casa nostra, chi non disegnava era radiato. Andrea e Marco passavano la giornata a disegnare. Vedevo Andrea che immaginava e disegnava allo stesso tempo, un flusso continuo, l’idea in mente, un attimo e la vedevi già sul foglio. Marco era tutto preciso, paziente, lo è anche adesso. Io facevo più fatica.
Marco possedeva una macchina fotografica, non mi ricordo chi gliel’avesse data, ma so di avere sentito un’attrazione istintiva per quell’oggetto, ho capito subito che avrebbe risolto tutti i miei problemi. Anche i primi fotografi erano pittori frustrati.
La fotografia non era amata in famiglia. Mio padre la considerava solo una fonte di documentazione per i suoi disegni. Se doveva disegnare una fattoria dell’Irlanda del Nord del 1850, cercava la foto oppure la casa editrice gli mandava tutti i possibili libri. Di fare un viaggio in Irlanda neanche a pensarci. Mio padre odiava viaggiare e mi ha trasmesso quest’odio.
Di immagini di famiglia ne abbiamo sempre avute poche e solo mia nonna Giulia aveva l’abitudine di vivere con l’immagine di suo marito, che teneva incorniciata sul comodino. Mia zia Mariuccia incollava le foto negli album, ma guai a toccarli, perché di sicuro avremmo distrutto anche quelli.
Non avevamo neppure l’abitudine di fotografarci durante le feste, Natale, Pasqua, compleanni. Ho solo qualche foto a Carnevale perché mio padre si divertiva molto a disegnarci i costumi. E a me piaceva quell’aspetto infantile del suo carattere.
Un anno mi aveva vestito da legionario romano, con l’elmo e la corazza. Andrea invece era uno Sforza, ma si vergognava moltissimo. Odiava il cappello, che era davvero una cosa gigantesca, un pizzone orrendo che gli scendeva fino alle spalle. Ma travestendoci accadeva qualcosa di straordinario, eravamo diversi, ognuno aveva la sua personalità. Non eravamo più lo specchio l’uno dell’altro.
Anche oggi, quando mi metto un costume, non sono più uguale ad Andrea. Mi dipingo, mi fotografo e sono finalmente qualcuno, qualcuno perché diverso, unico. Non sono io, perché altrimenti è lui.
Ho iniziato a fotografare verso i quattordici anni, in campagna. Mi travestivo da D’Annunzio, da Proust, da Freud, mi disegnavo i baffi con il turacciolo, indossavo una vecchia giacca, facevo il colletto della camicia di carta, mettevo gli occhialini, anche quelli trovati chissà dove, appendevo un tappeto alle mie spalle o costruivo un angolo di salotto, e mi fotografavo con l’autoscatto.
Ogni tanto anche la zia Mariuccia, in preda alle sue crisi d’ansia, passava l’estate insieme a noi e ogni settimana, con Andrea, fotografavo il suo funerale, cosa che per altro le ha portato benissimo, è morta a più di novant’anni sana come un pesce.
Dicevamo: «Zia, facciamo il tuo funerale?». E lei accettava sempre. Credo che in questo modo placasse la sua tremenda ipocondria. Sono morta, e non mi può succedere nulla, avrà pensato.
da “Autobiografia di un impostore. Narrata da Laura Leonelli”, di Paolo Ventura, Johan & Levi, 2021, pagine 152, euro 20