Conflitto tra poteriPerché il Parlamento europeo potrebbe far causa alla Commissione

Gli eurodeputati vogliono che venga attivato subito il meccanismo che lega i fondi comunitari allo Stato di Diritto. Il Berlaymont temporeggia per non arrivare allo scontro con Polonia e Ungheria. La controversia potrebbe finire davanti alla Corte di Giustizia dell’Unione europea

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Parlamento europeo Commissione potrebbero presto confrontarsi davanti alla Corte di Giustizia dell’Unione europea. Motivo del contendere è il meccanismo che vincola l’esborso dei fondi europei al rispetto dello Stato di Diritto nei 27 Stati membri. Il regolamento che lo istituisce è stato adottato a dicembre e lo strumento per vincolare gli Stati è in vigore ufficialmente dal primo gennaio 2021. La Commissione però non sembra però avere fretta di applicarlo, mentre l’Europarlamento lo vorrebbe subito operativo, per spingere i governi sovranisti di Polonia e Ungheria a conformarsi ai valori europei. E fissa una scadenza, il primo giugno 2021: dopo quella data ogni ritardo sarà considerato una colpevole mancanza e il confronto politico potrebbe trasformarsi in giudiziario, con la minaccia di portare la questione davanti alla Corte di Giustizia dell’Ue.

La maggioranza degli eurodeputati ha mandato un messaggio politico chiaro approvando una risoluzione con 529 voti favorevoli, 148 contrari e 10 astensioni. Se la Commissione non rispetterà i suoi impegni, il Parlamento europeo è pronto ad adire le vie legali. Può farlo grazie all’articolo 265 del trattato sul funzionamento dell’Unione europea: quando un’istituzione si astiene da un compito che le spetta, un’altra istituzione può denunciare la violazione al massimo tribunale comunitario.

Il Regolamento 2020/2092, con cui è stato istituito il meccanismo di condizionalità sullo Stato di Diritto, è stato formalizzato il 16 dicembre 2020. La trattativa per trovare un accordo non è stata semplice: alcuni Paesi membri particolarmente a rischio di provvedimenti, come Polonia e Ungheria, si sono opposti alla sua adozione accusando Bruxelles di usare questo vincolo come un’arma politica. Non potendo far saltare il meccanismo, perché si votava a maggioranza qualificata nel Consiglio europeo (organo che riunisce i leader dei 27 Stati membri), i due premier Viktor Orbàn e Mateusz Morawiecki hanno per settimane tenuto in stallo i negoziati sul bilancio pluriennale europeo e quindi anche i fondi del NextGeneration EU. Speravano in questo modo di ottenere un indebolimento del meccanismo.

Ai tempi, l’intesa raggiunta in extremis dalla presidenza tedesca del Consiglio venne celebrata come un buon compromesso, che non avrebbe intaccato l’efficacia dello strumento, ma al massimo ritardato l’attivazione. Ora però i nodi vengono al pettine: la Commissione accettò di non adottare il meccanismo prima di aver stilato «linee guida» «in stretta consultazione con gli Stati membri» per la sua applicazione. Non solo, in caso di ricorsi la Commissione si impegnava a tenere in stand-by il regolamento fino al giudizio della Corte di Giustizia dell’UE.

I ricorsi sono arrivati, puntuali e attesi, da Polonia e Ungheria nel mese di marzo. Una mossa annunciata che però non scoraggia gli eurodeputati: «La Commissione ha il diritto di aggiungere delle linee guida, se lo ritiene necessario. Quello che non può fare è utilizzare la scusa delle linee guida per ritardare l’attivazione del meccanismo», afferma a Linkiesta Daniel Freund, uno dei parlamentari firmatari della risoluzione. «Se la Commissione vuole istituire queste indicazioni supplementari deve farlo al più presto: abbiamo fissato la deadline al primo giugno»

Cosa dice il diritto europeo
Per i parlamentari il regolamento è già chiaro abbastanza di per sé ed è, soprattutto, giuridicamente vincolante. Gli impegni presi dalla Commissione e riportati nelle conclusioni del Consiglio europeo di dicembre sono, al contrario, semplici orientamenti. Un’interpretazione condivisa da Davide Diverio, professore di diritto dell’UE all’Università degli studi di Milano: «Se il regolamento non include questi atti, essi non hanno un valore condizionante».

Tuttavia, sottolinea il docente a Linkiesta, il comportamento della Commissione non è necessariamente scorretto: «A mio parere le sue preoccupazioni sono legittime: è giusto voler informare il più possibile gli Stati Membri sulle modalità con cui il regolamento verrà attuato».

Anche per questo, un eventuale causa giudiziaria avrebbe un esito molto incerto: «Non so quanto questa strada sia percorribile. Si tratta di un ricorso “in carenza”, che la Corte potrebbe anche dichiarare irricevibile». Analogamente a quanto succede con le procedure d’infrazione, spiega Diverio, se il compito della Commissione è vigilare sul rispetto dello Stato di Diritto, risulterebbe difficile dimostrare una negligenza. «La Commissione potrebbe anche adempiere al suo dovere di supervisione, ma non ravvisare gli estremi per intervenire». 

Senza contare che il ricorso all’articolo 265 è cosa alquanto rara nella storia europea: «Uno dei casi più importanti riguardò una disputa fra Parlamento e Consiglio a metà degli anni Ottanta. Di norma l’emiciclo agisce contro gli Stati Membri».

Secondo  Diverio si tratta in fondo di una comprensibile guerra di posizione, in cui ogni istituzione persegue i propri interessi: «Il Parlamento vuole accelerare nell’attivazione del meccanismo e la risoluzione è un atto politico che punta a un forte impatto mediatico: ciò che serve all’emiciclo per fare pressione».

Parlamento e Commissione: due strategie diverse
Che si traduca o meno in processo giudiziario, la divergenza di atteggiamento sul Regolamento 2020/2092 riflette le diverse posizioni delle due istituzioni su un tema di stretta attualità: il comportamento dell’UE di fronte a quei governi che ne mettono a repentaglio i valori fondamentali.

Il Parlamento è tradizionalmente più aggressivo sul tema, con numerose risoluzioni (sono atti non vincolanti, ma messaggi politici forti) e prese di posizione, la Commissione sembra sempre pronta a tirare le briglie. Quest’ultimo stallo istituzionale, però, porta con sé tutto il peso del momento storico di difficoltà dovuto alla pandemia. 

Ufficialmente la Commissione europea chiede tempo per attivare un meccanismo che non possa in alcun modo essere contestato davanti alla Corte di Giustizia, spiega Daniel Freund. In realtà, si trova davanti a un dilemma, proprio per l’accordo concordato a dicembre, quando era fondamentale convincere Polonia e Ungheria a sbloccare la trattativa sul bilancio.

Evitare il braccio di ferro con le capitali rimane il chiodo fisso di palazzo Berlaymont, anche perché il faticoso iter del NextGeneration EU non è ancora terminato. Il Parlamento ungherese e quello polacco (come altri 12 camere degli Stati membri) non hanno ancora approvato la decisione sulle “risorse proprie”, condizione imprescindibile per reperire sui mercati i fondi necessari alla Commissione. «Tecnicamente, possono ancora bloccare il Recovery Plan», afferma il parlamentare, convinto che sia questo il motivo reale dietro alla tattica attendista della Commissione.

«Preferiremmo che i commissari agissero subito, in modo da non doverli portare in tribunale. Ma se così non sarà, il Parlamento userà tutte le armi a sua disposizione per attivare il meccanismo. Compresa quella finale».

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