Il principe cerca figlioIl sequel che nessuno aveva chiesto non fa nemmeno ridere

Il ritorno di Eddie Murphy nei panni del re di Zamunda è spiacevole come un cena di classe 30 anni dopo. Si ritrovano le stesse persone, un po’ più vecchie e con qualche acciacco. Ma senza nessuna nostalgia

Da “Il principe cerca figlio”

Uno dei tanti problemi del cinema americano è la mania dei sequel. «Perché rovinare un film?», si chiede Lavelle Junson (interpretato da Jermaine Fowler). È una domanda saggia, peccato che a porsela sia proprio il protagonista di un sequel, per l’esattezza il figlio de “Il principe cerca figlio” (Amazon Prime) seguito de “Il principe cerca moglie”, film cult del 1988 con Eddie Murphy.

L’intenzione è ironica, ma la risposta rimane inevasa per il resto del film: qualcuno sentiva il bisogno di una seconda parte?

Certo che no. Nessuno lo chiedeva, e nessuno sentiva la necessità di tornare nel fittizio regno africano di Zamunda, quello da cui più di trent’anni fa il principe Akeem Joffer (Eddie Murphy) era partito per New York in cerca di una moglie migliore di quella che il padre voleva affibbiargli per ragioni geopolitiche. Come sa chi ha visto il primo film, la troverà nella figlia del gestore di un fast-food, che conquisterà tenendo nascosta la sua identità. Una versione aggiornata della favola di Cenerentola.

Ecco. “Il principe cerca figlio” segue la medesima trama, solo che stavolta a essere recuperato dal Queens è l’erede al trono, Lavelle Junson, ragazzino senz’arte né parte concepito dal principe – si scopre con una stiracchiatura della trama – in un incontro rocambolesco durante la sua prima visita. La sua presenza, in un regno patriarcale come Zamunda, è necessaria per siglare una pace duratura con il vicino Paese di Nexdoria attraverso, appunto, un matrimonio combinato. Cambiano i re, la storia si ripete.

Questa è la (esile) trama. Segue il classico carico di contrattempi, cambi di programma, sorprese e sketch dalla comicità disgraziata. È un’operazione nostalgia? Pare di sì. Si recuperano personaggi, comparse e storie del primo film (e in generale della galassia Murphy: c’è spazio anche per un cammeo dei fratelli Duke) come se fossero vecchi amici di cui si erano perse le tracce. Anche nella realtà parallela di Zamunda, si scopre con tristezza, il tempo passa. Perfino l’elefantino del 1988 è diventato un grande e maestoso adulto.

Anche a New York ci sono cambiamenti. Il quartiere è più bello («si chiama gentrificazione», dice il barbiere), i giovani fanno cose che prima non si facevano e l’America non è più la stessa. L’importante, nel confronto oggi/ieri, è rimanere sull’orlo dell’umorismo, sorvolando ogni possibilità di affondo satirico. Meglio i giochi di parole a sfondo sessuale.

Insomma, per usare un linguaggio di moda, è un film per boomer (in senso lato). Somiglia più di tutto a una cena tra compagni di classe. Si rivedono facce dimenticate, c’è chi ha avuto figli e si fa il conto di quanto tempo è passato. Per usare un’altra parola di moda, di fronte ai parrucchieri invecchiati, ai protagonisti cresciuti, ai chili presi, sarebbe tutto abbastanza cringe. Se non fosse che qualcosa di fresco c’è.

Non certo il finale corretto e para-femminista, e nemmeno gli sketch bolsi. Ma tutto l’apparato di danze, ritmi e musiche che danno un ritmo simpatico a una commedia inoffensiva e di puro intrattenimento.

Come ha notato A. O. Scott sul New York Times, il vero merito del film va cercato nei costumi, realizzati dal premio Oscar Ruth E. Carter (che, dice, adesso ne meriterebbe un altro). Esprimono ricchezza e freschezza di idee, uno stile moderno e globale. Ma che asseconda la tradizione del fittizio regno africano di Zamunda. È questa la traccia di un incontro tra culture, la sintesi di favole e realtà?

Può essere, ma meglio non esagerare. “Il principe cerca figlio”, nella sua non richiesta presenza, si limita a raccontare per la seconda volta la stessa storia. Ed è già tanto se strappa qualche sorriso.

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