Una crisi di vocazioni che può tradursi in un problema economico-commerciale. I monaci trappisti sono sempre di meno, invecchiano e non riescono più a occuparsi della produzione di birra.
È un problema generale dell’ordine, che nella crisi religiosa diffusa vede declinare i nuovi ingressi, ma è anche un cruccio che riguarda etichette, certificati di autenticità e opportunità di marketing.
Le birre trappiste sono note e apprezzate dagli appassionati per il loro sapore intenso, dato dall’impiego di ingredienti naturali autoprodotti, e dall’alto contenuto alcolico. Ma per potersi fregiare dell’etichetta “trappista” devono rispettare alcuni requisiti: la produzione deve avvenire in un monastero e deve essere almeno controllata da monaci.
Come racconta al Wall Street Journal Fabrice Bordon, brand ambassador della Chimay, la marca di birra dell’abbazia di Scourmont (Belgio), la maggior parte del lavoro è ormai in mani laiche. I monaci si occupano di sovrintendere tutte le operazioni (come protocollo vuole) e prendere le decisioni finali. «Ne bastano due, ma se fossero cinque sarebbe meglio». Al momento sono 12, da 15 che erano. «Una squadra di rugby che è diventata una squadra di calcio, più una riserva».
Non è un problema che viene trattato nelle scuole di business, e la soluzione non sembra facile. Anche se i monaci, spiega Manu Pauwels, marketing manager alla fabbrica di birra dell’abbazia di Westmalle, sempre in Belgio, sono fiduciosi. «Loro sono credenti e pensano che Dio risolverà tutto». Attraverso quali mezzi, non è dato sapere.
L’ordine dei trappisti, o meglio cistercensi di stretta osservanza, risale al XVII secolo. La loro regola, nota per la rigidità, prevede rispetto assoluto del silenzio, solitudine e almeno sette preghiere al giorno. Il loro sostentamento deve derivare, almeno per la maggior parte, dall’autoproduzione.
Da secoli i monasteri trappisti coltivano e producono beni alimentari che, nel corso degli anni, hanno anche commerciato (per fini di beneficenza o per sostenere le spese del convento). Dai prodotti caseari alle caramelle fino alla birra, ultima arrivata – risale all’inizio del XIX secolo – nel mondo trappista. Ma è anche il prodotto che li ha resi famosi.
Forse troppo, dal momento che di fronte alla concorrenza (sleale) di altri fabbricanti di birra, che per ottenere visibilità non si facevano scrupoli a utilizzare figure di monaci sulle etichette, hanno istituito nel 1998 l’Authentic Trappist Product, etichette di autenticità esclusiva (al momento se ne possono fregiare cinque in Belgio, due in Olanda, una in America, in Inghilterra, in Italia e in Austria).
Il monastero di Konigshoeven, in Olanda, nel 1999 era stato cacciato perché i monaci, ormai vecchi e stanchi, avevano delegato la produzione a una azienda di birra tedesca. Nel 2005, dopo avere ripreso il controllo, hanno potuto essere riammessi.
Ma il problema rimane: a Westmalle, una abbazia considerata gigante, i monaci sono 30. Nel convento di Saint Joseph a Spencer, nel Massachussetts, sono quasi 50. Padre Isaac Keeley, Ceo della brewery, ha 70 anni e una certa lucidità: «Se vogliamo essere sinceri, la vita monastica non attira tante persone. Soprattutto, non attira persone brave nel settore del marketing».
Anzi: uno dei due monaci che avevano inviato nell’abbazia di Scourmont, la più importante dal punto di vista della produzione, per imparare le tecniche e portarle in America, ha preso una sorta di anno sabbatico «e adesso lavora per un’azienda che produce birra». Tornerà? Il dubbio lo tormenta.
Non si può dire che i monasteri non siano stati al passo con i tempi. L’abbazia di Scourmont di Chimay è diventata la più famosa nel mondo e ogni anno ricava, dalla vendita della birra, circa 65 milioni di euro. Organizza anche vacanze monastiche nella speranza di reclutare qualche nuovo arrivato.
Quella più piccola di Westvleteren, invece, è passata dalle ordinazioni telefoniche a quelle online senza battere ciglio e la sua birra, che produce solo per coprire i costi del monastero, è la più ricercata data la sua rarità. Il monastero di Spencer, per fare fronte alle richieste del mercato americano, ha deciso di produrre anche Ipa, che pubblicizza con una buona campagna sui social.
Insomma, la birra è buona e funziona. Il mercato è solido e promette bene. Ma la sopravvivenza dei monasteri non è legata a questioni economiche. È la crisi delle vocazioni, l’inattualità di una regola e di uno stile di vita. Nel 2020, per capirsi, gli ultimi due monaci dell’abbazia di San Benedetto, una delle più piccole del Belgio, hanno lasciato la struttura per trasferirsi nel convento di Westmalle. La birra viene ancora prodotta, ma senza di loro non è più considerata a regola. Sarà ancora buona, certo. Ma non benedetta.