La tensione tra Unione Europea e Cina non era mai stata così manifesta dal 1989, non a caso l’anno dell’ultima sanzione imposta da Bruxelles a Pechino. Dopo che il Consiglio (l’organo che riunisce i ministri dei 27 governi degli Stati membri) ha comminato sanzioni per quattro funzionari cinesi, il governo di Xi Jinping ha risposto sanzionando a sua volta cinque europarlamentari, tre deputati nazionali e due ricercatori europei, ma anche due organi delle istituzioni comunitarie e altrettanti think-tank. Per molti, questo scambio di scortesie diplomatiche è il primo passo ufficiale verso il fallimento del Comprehensive Investment Agreement (CAI), il grande accordo commerciale oggetto di faticosi negoziati fra la Cina e l’Unione negli ultimi otto anni.
Il caso diplomatico scoppia quando a Bruxelles è ora di pranzo e a Pechino si cena. Il Consiglio impone sanzioni individuali a 11 soggetti responsabili di violazioni di diritti umani nel mondo. Ci sono i colpevoli della repressione in Corea del Nord, quelli delle esecuzioni extra-giudiziali in Libia, Eritrea e Sud Sudan, gli ufficiali russi artefici della repressione politica in Cecenia.
Ma i nomi che fanno più notizia sono quelli scritti in caratteri cinesi. Il più pesante è forse quello di Zhu Hailun, ex vicecapo dell’Assemblea del popolo dello Xinjiang e mente di un programma di sorveglianza, detenzione e indottrinamento su larga scala rivolto agli Uiguri e ad altre minoranze musulmane della regione. Anche gli altri soggetti sono coinvolti a vario titolo nella sistematica opera di assoggettamento culturale che Pechino ha messo in atto nella regione più occidentale del Paese.
Nella lista appare Wang Junzheng, segretario della Xpcc, un’organizzazione economica e paramilitare dello Xinjiang accusata di ricorrere alle minoranze etniche come manodopera forzata, in particolare nei campi di cotone. Funzionari di alto rango della regione sono pure gli altri due destinatari dei provvedimenti restrittivi: il segretario del comitato per gli affari politici e giuridici dello Xinjiang Wang Mingshan e il direttore dell’ufficio regionale per la pubblica sicurezza Chen Mingguo. «Vogliamo che la Cina avvii un dialogo con l’Ue sui diritti umani», le parole a corredo dell’Alto Rappresentante per gli affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell.
Gli individui che rientrano nell’elenco delle sanzioni sono soggetti a un divieto di ingresso nei Paesi UE e al congelamento di eventuali beni detenuti nel territorio dell’Unione. È anche proibito a privati e imprese europee fare affari con questi soggetti, dando loro accesso, direttamente o indirettamente, a risorse economiche. Più che un efficace valore concreto, queste misure recano una forte carica simbolica. L’UE ha spesso condannato l’attitudine repressiva della Cina nello Xinjiang a parole e risoluzioni del Parlamento europeo. Ma questa è la prima volta, dai tempi dell’embargo di armi successivo al massacro di piazza Tiananmen, che le istituzioni comunitarie intraprendono un’azione pratica.
Infatti, la risposta cinese è immediata. Nel primo pomeriggio europeo il ministero degli Esteri di Pechino annuncia una misura analoga contro dieci individui e quattro organismi europei: ai sanzionati e alle loro famiglie sono proibiti l’ingresso sul territorio nazionale (comprese Hong Kong e Macao) e ogni tipo di affari con il Paese.
Non si tratta di pesci piccoli. Fra le persone colpite ci sono cinque parlamentari europei: Reinhard Butikofer dei Verdi/Ale, Michael Gahler e Miriam Lexmann del Ppe, Raphael Glucksmann dei Socialisti e Democratici e Ilhan Kyuchyuk adi Renew Europe. Ma anche un politico olandese, Sjoerd Wiemer Sjoerdsma, un deputato del parlamento belga di origine italiana, Samuel Cogolati, e una di quello lituano, Dovile Sakaliene, insieme al ricercatore tedesco Adrian Zenz e allo svedese Bjorn Jerden. Tutti colpevoli di «aver seriamente danneggiato la sovranità e gli interessi della Cina e volontariamente diffuso menzogne e disinformazione»
Se già gli individui presi di mira fanno scalpore, in quanto rappresentanti di istituzioni nazionali e comunitarie, le entità coinvolte nelle sanzioni segnano probabilmente un punto di non ritorno nell’escalation di tensione. Oltre a un istituto di ricerca tedesco e a uno danese, ci sono infatti il Comitato politico e di sicurezza del Consiglio Europeo (CPS) e la sottocommissione per i Diritti Umani del Parlamento comunitario. Il primo è l’organo responsabile della politica estera, di sicurezza e difesa comune dell’UE, composto dagli ambasciatori dei 27 Stati membri con base a Bruxelles e presieduto dai rappresentanti dell’Eeas: non proprio un circolo di secondo piano. La sottocommissione parlamentare per i Diritti Umani è invece incaricata dal Parlamento di indagare e denunciare violazioni in tutto il mondo, per poi sottoporre le sue conclusioni al giudizio dell’aula.
Nessun dubbio sul fatto che si tratti di una contromossa. Lo stesso portavoce del ministero di Pechino cita le sanzioni europee come un atto «basato su bugie e disinformazione, che ignora e distorce i fatti, interferisce negli affari interni della Cina e mina gravemente le relazioni con l’Ue». Praticamente una dichiarazione di guerra diplomatica.
La risposta degli europarlamentari
«Le sanzioni a deputati e organismi dell’Unione Europea sono inaccettabili e avranno sicuramente delle conseguenze», risponde a tono da Bruxelles il presidente del Parlamento europeo David Sassoli, che incontrato subito gli europarlamentari coinvolti. Il presidente fa capire che l’emiciclo non rinuncerà alla difesa dei diritti umani, principio sancito dai trattati dell’Ue.
Si fanno sentire anche le capitali nazionali, con il governo olandese che convoca l’ambasciatore di Pechino e vari ministri degli Esteri rapidi a condannare il gesto, tra cui il tedesco Heiko Maas.
Non si contano le testimonianze di solidarietà ai colleghi e le dichiarazioni battagliere dei deputati del Parlamento Europeo, anche perché i sanzionati fanno parte di quattro dei cinque gruppi più numerosi dell’emiciclo. L’Eurocamera si schiera compatta a difesa dei suoi membri e chiama l’appoggio delle altre istituzioni, come afferma, tra gli altri, il capo-delegazione del Partito Democratico Brando Benifei: «Ci aspettiamo una ferma presa di posizione da parte della Commissione europea e dell’Alto Rappresentante sull’accaduto».
I diretti interessati tendono a considerare l’inclusione nella lista delle sanzioni come una medaglia al merito, testimonianza del loro impegno per denunciare le violazioni ai diritti umani avvenute nello Xinjiang. Il verde tedesco Bütikofer si concede anche una puntura ironica su Twitter, contento che gli sarà ancora possibile visitare Taiwan, eterna spina nel fianco dell’esecutivo cinese.
In un’intervista a Linkiesta dello scorso novembre, il deputato disse che sì, la Cina è un partner commerciale molto importante per l’Ue, ma che il Parlamento non avrebbe fatto finta di niente sulle questioni umanitarie, tra cui proprio il lavoro forzato degli Uiguri. Ora più che mai è quindi a rischio il Comprehensive Investment Agreement.
L’intesa spalancherebbe ai produttori europei le porte di un mercato da oltre un miliardo di consumatori, ma porterebbe con sé sanguinosi dilemmi sul rispetto dei diritti umani, principio di cui l’Ue si erge solitamente a paladina con le altre superpotenze della scena globale. Se le istituzioni di Bruxelles faranno valere i propri principi ispiratori, l’accordo rischia seriamente di tramontare, anche per l’usuale irritazione dei cinesi quando un attore straniero tocca i loro affari interni.
Con reattività invidiabile, il gruppo dei Socialisti e Democratici ha già comunicato che la rimozione di queste sanzioni è condizione imprescindibile per continuare il negoziato sul CAI. Difficile che sia più morbida la posizione delle altre famiglie politiche, considerando che la parte destra dell’emiciclo è tradizionalmente più belligerante verso il gigante asiatico. Gli affari sono affari, ma l’Europa non li farà a occhi chiusi.