Bitter home AlabamaLa guerra di secessione americana raccontata da Barbero

Nel nuovo romanzo pubblicato da Sellerio, lo storico piemontese ricostruisce il mondo dei Sudisti, gli episodi della guerra, attraverso la voce di un vecchio reduce, fino a fare luce su una vicenda oscura di violenza tra bianchi e afroamericani

La Battaglia di Chattanooga, da Wikimedia Commons

È nell’afa della sua casa coloniale nell’Alabama che il vecchio Dick Stanton comincia a raccontare. Sono i ricordi della Guerra civile americana, eventi del secolo precedente che, ormai, sono diventati materia di studio per gli storici. Ad ascoltarlo – e spingerlo a parlare – è una ragazza, per un progetto di ricerca universitario. Vuole fare chiarezza su un episodio oscuro che era avvenuto a margine della battaglia di Chancellorsville, un fatto di violenza che riguardava loro, i soldati, e un gruppo di neri armati.

«Se me lo ricordo? Eh, direi che me lo ricordo. Non mi sono mica bevuto il cervello in tutti questi anni, nossignora, non io». Comincia così “Alabama” (Sellerio), romanzo dello storico Alessandro Barbero, famoso per le sue opere sul Medioevo ma che, tra saggi e romanzi, non disdegna fughe anche in altre epoche. Sempre per la casa editrice palermitana aveva pubblicato “Il divano di Istanbul” sull’impero ottomano e la biografia di Federico II di Prussia, per Mondadori “Le ateniesi”, ambientato nel 411 a.C. Stavolta tocca alla Guerra di secessione americana, sua grande passione personale su cui si è documentato nel corso degli anni.

Anche “Alabama”, nonostante il tempismo della pubblicazione – a ridosso della sentenza in America per l’uccisione di George Floyd, dopo l’assalto trumpiano al Campidoglio e a un anno dalle proteste di Black Lives Matter contro le violenze sui neri compiute dalla polizia – è stata composta in un lungo arco di tempo. E si vede, perché il vecchio Dick Stanton, per rispondere alla domanda della ragazza (che diventa sempre più nervosa) si prende tutto il tempo che gli serve. Parte da lontano – dal momento dell’arruolamento – si perde a descrivere minuzie, incontri, battute e battutacce da soldati. Si premura di spiegare i rapporti tra commilitoni e indica cause e motivi di simpatie e antipatie, che si perdono in vecchie storie di paese tra contadini e allevatori: animali rubati, litigi per cippi di campo spostati e, come è da aspettarsi, scazzottate e coltellate.

Descrive così il mondo degli Stati del Sud, raggiunti da una guerra che non volevano («Perché gli yankee non ci lasciano in pace?»), segnati da violenza e ignoranza, ma anche sostenuti da un certo spirito di cameratismo e una convinzione incrollabile: i bianchi erano superiori ai neri.

Tutto il suo resoconto, tra le marce nel fango in mezzo ai fogli delle Bibbie buttate via, i piani improvvisati dei generali, i tascapane mezzi vuoti, le palle degli yankee che li raggiungono e fanno fuori, di volta in volta, i suoi compagni, comprende la presenza di schiavi neri. O sono nei campi a raccogliere il cotone, o fanno il bucato, o seguono l’esercito per tenere i muli «perché si capiscono, e parlano la stessa lingua». Oppure fanno incontri di lotta, per scommesse, e si finisce in una grande bevuta: «quello era il modo in cui si santificava la domenica». Oppure ancora sono impiegati come bestie, come quella comprata «da Ebenezer Byrd», che appena ha qualche soldo ne compra una «ben piantata» e la fa mettere incinta per avere giovani schiavi robusti.

Un modo di vivere disumano che, tuttavia, sembra ai loro padroni naturale come gli elementi. «Noi li trattavamo bene, hanno sempre avuto da mangiare a sazietà»

Col passare del tempo la ragazza che ascolta– anche lei originaria del Sud – scopre di condividere con il vecchio più di quanto immaginasse. La diffidenza per i neri, soprattutto. Ma anche un comune senso di appartenenza a una terra. E anche se l’America in quel momento è impegnata in un’altra guerra, contro nemici stranieri, gli echi di quel tempo ritornano: non solo attraverso i ricordi confusi e imprevedibili di un vecchio contadino, ma anche con l’affermazione di una mentalità comune. «Questi sono discorsi da bianchi».

La campagna militare, invece, viene smitizzata. I soldati sono magri, affamati. «Non pensavamo ad altro che a fregare le scarpe agli yankee e gli orologi e le brache». Tirano avanti a suon di battute, qualche canzonaccia e molta nostalgia. Tra di loro ci sono preti, predicatori di una fede a un tempo ingenua («quelli che s’iscrissero all’Associazione cristiana, be’, devo riconoscere che si sforzavano sul serio di non bere e di non giocare a carte, e di non fare a pugni»).

La battaglia di Chancellorsville fu importante perché, per un errore, viene ucciso Stonewall Jackson, generale e anima militare dei Confederati. La perdita peserà sul resto del conflitto fino alla disfatta.

A quel punto la guerra è finita. Dick Stanton torna a casa e ritrova il mondo di prima sconvolto. Case bruciate, gente scappata, campi abbandonati. È in quel frangente che, insieme ad altri, verrà chiamato a fare parte di una squadra di volenterosi, il cui obiettivo è fermare «le bande di neri che saccheggiano» le case e le proprietà dei bianchi. Il tutto con l’assenso dei nordisti. La violenza continua, insomma. La sua radice era più profonda di quanto si pensasse.

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