Riunire il paeseCosa serve per non sprecare i fondi europei destinati al Sud

Il Piano nazionale di ripresa e resilienza porterà 82 miliardi nel Mezzogiorno, e contando tutte le risorse in arrivo nei prossimi anni il totale è di 212,7 miliardi. Razionalizzare i progetti, tagliare i tempi della Pubblica amministrazione, trovare competenze tecniche per scrivere bandi corretti sono condizioni indispensabili per non perdere i soldi messi a disposizione da Bruxelles

Pixabay

Sono state quasi 100mila le candidature presentate al concorso per l’assunzione a tempo determinato di 2.800 tecnici nelle amministrazioni del Sud. I profili più adatti per le posizioni aperte del bando – esperto amministrativo giuridico, esperto in gestione, rendicontazione e controllo, esperto tecnico, esperto in progettazione e animazione territoriale, analista informatico – verranno inclusi in una prima graduatoria di circa 8.400 idonei che a giugno faranno la prova scritta digitale.

Le procedure dovranno concludersi entro 100 giorni dal bando, dunque entro luglio, con la pubblicazione delle graduatorie di vincitori e l’avvio delle procedure di assunzione del personale.

Il concorso voluto dal ministero della Pubblica amministrazione e dal ministero per il Sud e la Coesione territoriale è solo un primo step per rendere più efficaci ed efficienti i progetti per il Mezzogiorno da finanziare con i fondi europei in arrivo nei prossimi anni.

Nel Piano nazionale di ripresa e resilienza 82 miliardi di euro sono destinati al Sud, il 40 per cento del totale – esclusi quelli non territorializzabili. A questi si aggiungono le risorse del Fondo complementare al Recovery per l’alta velocità Salerno-Reggio Calabria, la Politica di coesione 2021-27, React-Eu, il Fondo sviluppo e coesione (Fsc), il Just Transition Fund. Il totale è di 212,7 miliardi di euro.

«Dietro i numeri ci sono le cose concrete, come l’alta velocità e il potenziamento dei collegamenti ferroviari sull’intero territorio meridionale, l’aumento della capacità dei porti, la banda larga, l’innovazione e il trasferimento tecnologico, gli asili nido, gli investimenti per la transizione ecologica, la sanità, la modernizzazione della pubblica amministrazione», scrivevamo proprio ieri qui a Linkiesta parlando dei progetti contenuti nel Pnrr.

Il ministero per il Sud ha già diffuso le stime dell’impatto del Piano sulla crescita del Mezzogiorno: nel quinquennio 2021-2026 il Pil aumenterà del 22,4% rispetto al valore del 2020, mentre la crescita del Pil nazionale nell’arco dei 5 anni sarebbe del 15,3%. Così il Pil del Mezzogiorno che oggi rappresenta il 22,7% del totale nazionale, nel 2026 dovrebbe salire al 24,1%.

Ma come hanno già detto il premier Mario Draghi e la stessa ministra Mara Carfagna, il focus dell’attenzione non deve essere sulla quantità di risorse destinate al Mezzogiorno, ma a come queste vengono usate. O non usate: l’Italia, e in particolare delle Regioni del Sud, non riesce a sfruttare a dovere i fondi messi a disposizione da Bruxelles.

Secondo un report della Corte dei Conti europea di settembre, l’Italia è penultima per capacità di assorbimento dei fondi del bilancio 2014-2020, con circa il 38% delle risorse effettivamente erogate dall’Unione europea (all’ultimo posto della classifica c’è la Croazia, col 36%).

Ad esempio il ciclo di programmazione del Fondo sviluppo e coesione 2014-2020 metteva a disposizione 60 miliardi, di cui è stato speso poco più del 5 per cento. È una condizione che si è già ripetuta più volte: in passato queste risorse sono rimaste perlopiù inutilizzate, per la debolezza istituzionale, amministrativa e progettuale di chi dovrebbe beneficiarne, cioè le regioni e gli enti territoriali.

Tra le cause delle difficoltà amministrative del Sud ce ne sono alcune ricorrenti. «La prima riguarda il personale amministrativo, poco adeguato alle complessità insite nella gestione dei fondi: il personale della PA è in media più anziano rispetto a quello di altri Paesi europei avanzati», dice a Linkiesta Ignazio Rocco, Ceo di Credimi – azienda fintech dei finanziamenti digitali per imprese – che ha lavorato al paper “Next Generation Sud” pubblicato dall’Associazione “M&M – Idee per un Paese migliore”, che riunisce imprenditori, manager, banchieri, esponenti del terzo settore, accademici e funzionari pubblici.

«Poi – aggiunge Ignazio Rocco – c’è il tema della capacità tecnica: per mettere un progetto nero su bianco e scrivere bandi comprensibili e corretti ci vogliono determinate competenze, non sempre presenti negli enti territoriali. E infine ci sarebbe da regolare il codice degli appalti, da cui dipendono le procedure di attribuzione di alcuni dei fondi, che rallenta la capacità di esecuzione».

I tempi saranno una condizione determinante: per quanto riguarda i progetti da finanziare con il Next Generation Eu andrà definito tutto nei prossimi cinque anni, occorrerà seguire un cronoprogramma sullo stato di avanzamento dei lavori, altrimenti la Commissione europea non potrà erogare i fondi.

I dati degli ultimi anni però non trasmettono grande ottimismo. Riguardo la progettazione e l’operatività dei progetti infrastrutturali, ad esempio, l’Agenzia per la Coesione territoriale nel 2018 scriveva che «il tempo di attuazione delle opere è pari a 4,4 anni in media, ma cresce progressivamente al crescere del valore economico dei progetti: si va da meno di 3 anni per i progetti di importo inferiore ai 100 mila euro a 15,7 anni per i grandi progetti dal valore di oltre 100 milioni di euro».

Più in dettaglio, la fase di progettazione presenta durate medie variabili tra 2 e 6 anni, la fase di aggiudicazione dei lavori oscilla tra 5 e 20 mesi circa, mentre i tempi medi dei lavori variano tra 5 mesi e quasi 8 anni.

Razionalizzare questi dati e tagliare i tempi delle operazioni è una condizione necessaria. Anche per questo motivo il presidente dello Svimez, Adriano Giannola, suggerisce un approccio metodologico – prima che tecnico – riguardo i progetti: «Il Pnrr deve essere responsabilità del governo, a cui vanno nominalmente quelle risorse. Sappiamo già che il Sud non riuscirebbe a usare questi fondi, allora ci vuole un coordinamento da Roma, e i territori devono avere una dimensione prettamente operativa. D’altronde l’interesse di un Paese che non cresce da 30 anni è azionare il motore del Mezzogiorno, che ha margine di crescita, non quello di un Nord che già con le aperture tornerà a produrre come ha sempre fatto».

Poi sarà fondamentale fare in modo che quei fondi destinati al Sud arrivino davvero dove devono. Perché nelle singole missioni del Piano non è definita la quota Mezzogiorno: l’Unione non ha dato una ripartizione aritmetica su base geografica all’interno di ogni Stato membro.

Parlando a Linkiesta Gianfranco Viesti, economista e docente all’Università di Bari, autore di “Centri e periferie. Europa, Italia, Mezzogiorno dal XX al XXI secolo”, spiega questa criticità partendo da un esempio sui bandi pubblici e sulle potenziali criticità che nascondono: «Il rischio è che un’amministrazione del Nord,che magari ha bisogno solo di completare una rete di infrastrutture, sia agevolata nel presentare un progetto forte e credibile rispetto alle tante amministrazioni del Sud che presenteranno progetti per creare da zero lo stesso tipo di rete».

Quindi non il problema non sarà solo nella capacità tecniche delle amministrazioni locali, ma anche nelle mancanze delle realtà esistenti. Sarà fondamentale stabilire con la massima accuratezza i criteri dei bandi, per mediare tra capacità di coprire tutto il Paese e capacità di mettere in campo progetti validi.

Entra nel club, sostieni Linkiesta!

X

Linkiesta senza pubblicità, 25 euro/anno invece di 60 euro.

Iscriviti a Linkiesta Club