«Sdraiati», «fannulloni», «choosy». Ma cosa vogliono davvero i giovani dal mondo del lavoro? La domanda, semplice, arriva da un articolo del Financial Times. E forse è arrivato il momento di porsela, subito dopo la approvazione del Recovery Plan. Anche perché la risposta è altrettanto semplice: «La maggior parte dei giovani vuole ciò che volevano i loro genitori e i loro nonni, ovvero un reddito dignitoso, la possibilità di progredire e una sicurezza sufficiente per costruirsi una vita». Il problema, però, è che in pochi riescono a farlo.
Un decennio di crescita globale debole, segnato da due crisi economiche, è in gran parte la causa dell’elevata disoccupazione giovanile, della lenta crescita dei salari e dell’alto numero di giovani laureati in posizioni per le quali in realtà non sarebbe richiesta la laurea.
Ma ci sono anche cambiamenti nella natura del lavoro. La gig economy, gli stage non retribuiti e i contratti temporanei e iperflessibili rappresentano ancora una piccola quota dell’occupazione totale nella maggior parte dei Paesi sviluppati. Il problema, però, è che questi fattori sono invece una parte importante del mercato del lavoro per i giovani.
Nell’area dell’euro, prima della pandemia, quasi la metà degli under 25 lavorava con contratti a tempo determinato. In alcuni casi, questi contratti rappresentano un trampolino di lancio per migliori posizioni successive. Ma ci sono tanti altri, in particolare per i non laureati, che rimangono spesso bloccati per anni in una lunga catena di contratti deboli e rinnovi last minute al cardiopalma. Senza possibilità di fare progetti e programmi di vita.
Lavorare in questo modo significa di solito anche «meno diritti, minore formazione e scarse opportunità di risparmiare per una pensione futura». E significa anche essere i primi a essere tagliati quando arriva una recessione, come molti hanno scoperto con l’arrivo del Covid.
In Italia, con il blocco dei licenziamenti e la cassa integrazione anti-Covid che hanno supportato i contratti stabili, a pagare le conseguenze della pandemia sono stati i contratti a termine, diffusi soprattutto tra i più giovani. In un anno se ne sono persi 372mila, con il calo degli occupati che tra i 15 e i 34 anni è quasi tre volte superiore (-7,3%) rispetto alle altre fasce d’età.
Certo, anche chi ha un lavoro stabile spesso vive con ansia il mercato del lavoro attuale. La competizione non è mai stata così intensa. E spesso ci si trova a vivere giornate interminabili di lavoro, con una crescente sovrapposizione tra il lavoro e la vita privata che finisce per danneggiare salute e relazioni.
Di cosa c’è bisogno, quindi? «Se i giovani vogliono affrontare il futuro con fiducia, avranno bisogno di tre cose: più posti di lavoro, meno insicurezza e una cultura del lavoro più umana», risponde il Financial Times.
Il problema è che i giovani, in particolare, subiscono gravi perdite soprattutto nella fase iniziale della carriera. E un inizio difficile getta una lunga ombra sui guadagni futuri e sulle prospettive di produttività. Avere più posti di lavoro, promozioni e crescita salariale nelle prime fasi della carriera avrebbe invece ricadute sull’economia complessiva di un Paese.
E per farlo, i datori di lavoro dovrebbero smetterla di suddividere i dipendenti su due livelli: con addetti interni iperprotetti e addetti esterni iperprecari, che spesso e volentieri non sono così autonomi come si vorrebbe far credere. Come hanno concluso diversi tribunali in Europa e negli Stati Uniti, ad esempio, persino i lavoratori delle piattaforme della gig economy non possono essere più considerati solo come autonomi puri senza tutele.
La flessibilità che funziona sia per il datore di lavoro che per il dipendente dovrebbe essere incoraggiata, certo, ma non deve essere confusa con accordi che insistono sulla flessibilità da parte delle aziende senza concederla però in cambio ai dipendenti.
Le aziende, continua il Ft, dovrebbero poi essere tenute a informare le persone dei loro turni e dare un compenso per le modifiche dell’ultimo minuto (le recenti leggi sulla fair workweek di New York e Chicago sono un modello). E i tirocini sono utili, ma le aziende che utilizzano gli stagisti per far fare loro un lavoro reale per mesi dovrebbero cominciare a pagarli.
Infine, le aziende dovrebbero cominciare ad ascoltare e prendere sul serio quello che i dipendenti più giovani pensano di una cultura lavorativa che spesso è «tossica», fatta di giornate interminabili davanti allo schermo e la pretesa di essere «sempre reattivi». Parliamo di generazioni che sono cresciute con la tecnologia digitale e che per questo sono più attente sia ai rischi sia alle possibilità. «Se siamo disposti ad ascoltarle, potrebbero aiutarci a salvarci da noi stessi», conclude il Financial Times.