«Ricordo le mosche bianche che ti andavano negli occhi, le zanzare, il caldo insopportabile nel deserto a Darwin quando ci mandarono lì a lavorare alle ferrovie… e che, quando fu tutto finito, pesavo 48 chili. Ero pelle e ossa».
Erano le poche cose che Florindo Bandoni – che era alto un metro e 83 centimetri – era solito dire riferite al tempo in cui è stato prigioniero. Quando era un “Enemy Alien”. La sua e quella di altre migliaia di persone, è una di quelle vicende finite tra le pieghe della storia. Classe 1914, nel lontano 1938 andò a cercare fortuna in Australia.
Un semplice civile, come ogni emigrante. E sempre da civile, finì nei campi di internamento della grande isola australiana appena 4 giorni dopo la dichiarazione di guerra dell’Italia all’Inghilterra, il 14 giugno del 1940. Fu rilasciato solo nel 1945.
Non fu il solo. Erano in migliaia e in molti pure antifascisti. A loro – seppur in altri campi – si unirono poi i soldati catturati durante il conflitto. Per quanto riguarda gli italiani, parliamo di oltre 23mila persone: 18.432 soldati e 4.727 civili. Prigionieri nei campi, seppur in minor numero rispetto agli italiani, anche civili soldati e appartenenti agli altri paesi delle forze dell’Asse Roma-Berlino-Tokyo e loro cobelligeranti. Perlopiù giapponesi e tedeschi ma anche ungheresi e finlandesi ad esempio.
I civili vennero internati perché gli australiani temevano la “Quinta Colonna”. «Le autorità australiane – spiega Gaetano Rando, storico con insegnamenti alle università di Western Australia, Griffith e Wollongong – avevano il timore della cosiddetta Quinta Colonna, ovvero un’organizzazione a carattere militare che potesse operare clandestinamente all’interno dell’Australia per fare spionaggio o agevolare una possibile invasione. Prima dello scoppio della guerra erano stati recensiti italiani, tedeschi e giapponesi, anche di discendenza, e fatto un piano preventivo per arrestarli se costituivano un pericolo. Non furono arrestati tutti ma una parte della comunità italiana sull’isola. Considerate che c’era il fattore “paura dello straniero” e che sul territorio queste comunità erano numerose. Gli “Enemy Alien”, così erano chiamati i futuri internati, venivano inizialmente portati nelle carceri locali per accertamenti, poi smistati e portati in campi che si trovavano nella stessa regione o a centinaia di chilometri di distanza. Non tutti erano fascisti. Fu internato chi aveva fatto parte di organizzazioni nazifasciste in passato e paradossalmente finirono nei campi anche un buon numero di antifascisti e oppositori del regime».
Uno dei motivi delle catture, fu la delazione, fatta magari nella speranza di salvare se stessi dalla prigionia. «Io fui catturato per una spiata, dissero in giro che ero fascista quando non era vero – ricorda Angelo Lelio Menchetti, internato nel 1942 e rilasciato alla fine del ’43 – fui mandato a Kalgoorlie: c’erano due campi per civili giapponesi e uno per tedeschi e italiani».
Bandoni, si legge negli incartamenti disponibili, fu fatto prigioniero perché era stato da piccolo nei Balilla e aveva fatto il militare in Italia prima di andare in Australia. I soldati invece furono fatti prigionieri in altri paesi durante il conflitto. Tanti in Africa. Come Carlo Vannucci e Flavio Cerri. I due, il primo soldato e il secondo telegrafista, furono catturati rispettivamente a Bardia e Tobruk in Libia, nel 1941.
«Ho fatto sei anni e mezzo di prigionia – ricorda Vannucci – due anni e mezzo in India e poi quattro in Australia. Ricordo che quando si arrivò in Australia a bordo della nave Mariposa, si scese a Melbourne. Da lì ci portarono subito a Cowra, la notte».
Cerri invece fu portato direttamente in Australia. «Seppur da prigioniero, ho avuto l’onore di viaggiare sulla Queen Mary – rammenta – ci imbarcarono a Porto Suez, in Egitto, e arrivammo a Sidney. Da lì fui portato a Cowra. Fu il mio primo campo. Gli fecero seguito Hay e Yanco, tutti nel Nuovo Galles del Sud. Stavamo in delle baracche, eravamo 50 in ognuna. Quando si cambiava campo, ogni comandante che si trovava faceva sempre il solito discorso: comportatevi bene e avrete una vita tranquilla. Civili? Non c’erano civili: eravamo tutti militari e solo italiani».
I militari non potevano essere a conoscenza della prigionia dei civili. Controllati dall’esercito australiano e gestiti come campi militari – con tanto di referente interno per i prigionieri, sveglia all’alba, luci spente alle 22, marcia per tre volte al giorno e appello militare due volte al dì – i luoghi di detenzione erano divisi per nazionalità e “stato”: i civili erano chiamati internati, i militari prigionieri di guerra.
Sembra una differenza da poco ma non lo è. Se il soldato rientrava nelle specifiche disposizioni della Convenzione di Ginevra del 27 luglio 1929 relativa al trattamento dei prigionieri di guerra, il civile godeva di norme internazionali poco chiare, poi specificate anni dopo nella convenzione del 1949.
Questo lasciava spazio a interpretazioni. E potrebbe spiegare almeno in parte, una volta finita la prigionia, la differenza di condizione fisica spesso registrata tra un soldato e un civile. Le due tipologie di prigioniero quindi, non entrarono in contatto. Ad accomunarli, le dispute politiche all’interno dei campi dove ci furono numerosi morti. Per questi ed altri motivi, se ne conteranno almeno 130, oggi nell’ossario nazionale italiano a Murchison, nello stato di Victoria.
Il più noto dei morti per disputa politica è l’anarchico Giovanni Fantin. Internato probabilmente per uno scambio di persona in quanto era conosciuto come antifascista e sindacalista accusato anche di fare propaganda comunista tra i lavoratori delle canne, fu ucciso nel campo di Loveday, il 16 novembre 1942 dal fascista Giovanni Bruno Casotti che lo colpì alle spalle.
I campi di internamento australiani erano ben diversi da quelli nazisti e fascisti. «Rispetto ai campi nazisti, quelli australiani erano luoghi migliori – chiarisce subito Rando – Tranne sporadici casi non ci sono stati maltrattamenti e c’era da mangiare. Si poteva ricevere una corrispondenza seppur passata al vaglio della censura e anche visite. Pare che i soldati rispetto ai civili si trovassero in una situazione diversa: erano abbastanza liberi di fare quello che volevano all’interno del campo. Per tutti, all’esterno, vigeva il non fraternizzare con gli australiani. In tanti, civili e soldati, venivano mandati a lavorare dagli agricoltori nelle fattorie, anche nei posti più remoti, o a fare lavori come strade, linee ferroviarie o altro».
E venivano in qualche modo pagati per il loro lavoro. «Ci davano 7 penny e mezzo al giorno – ricorda Cerri – 15 se era un lavoro speciale. Venivamo pagati con soldi che erano stati fatti apposta per i prigionieri, da usare nel campo. Potevamo fare sport come tennis, calcio e anche teatro. Ci davano sigarette e da mangiare ne avevamo tantissimo, c’è gente che a star lì è ingrassata. E le cose in più, come carne salata, margarina e altro non le buttavamo via. Le sotterravamo e le vendevamo ai civili australiani con uno stratagemma. Loro in cambio ci davano soldi che poi usavamo per acquistare cose che non avevamo. Ad esempio, pian piano abbiamo preso gli strumenti e abbiamo fatto l’orchestra. Barattavamo anche coi soldati».
In quel caso, il baratto erano oggetti con produzione… artigianale. «Sotto le baracche, di notte, accendevamo il fuoco e con le bucce di mela, banane e altra frutta facevamo la grappa – rammenta sorridendo Vannucci che sarà poi pittore e costruttore al carnevale di Viareggio – I soldati ci lasciavano fare perché poi le bottiglie le scambiavamo con loro. Riuscivamo ad avere un po’ di tutto. Tanti venivano mandati lontano a lavorare e tornavano chi dopo un mese, chi dopo due, chi dopo un anno.. Nelle baracche si stava poco. Quando non lavoravamo, dovevamo combattere la noia sennò si moriva».
I civili sembra che potevano passarsela un po’ peggio. «Secondo dove andavamo a finire – ricorda Menchetti – a noi civili davano giusto quella boccata di cibo per sopravvivere, come ai cani. Sono stati tempi bui. Nel campo comunque non ti obbligavano a lavorare. Ma rimanere al campo significava restare a mangiare la polvere».
La data spartiacque fu l’8 settembre del 1943. A dispetto di quanto si potrebbe pensare, nonostante l’armistizio né civili né soldati furono immediatamente rilasciati. Nella maggior parte dei casi, la prigionia durò per altri 2-3 anni.
«Quando venne l’armistizio si cominciò a sperare un po’ di più – ammette Vannucci – ma dopo poco prese lo sconforto. Si cominciò a dire che domani si rimpatriava.. ma non si rimpatriava mai. A un certo punto, si pensò che a casa non si tornava più: si finiva lì e buonanotte».
«Alcuni internati si sono suicidati per la situazione», sottolinea Rando. Altri, come Menchetti e Bandoni – che intanto si erano conosciuti nel campo di Loveday e diventeranno poi cognati col secondo che sposerà la sorella del primo – ebbero un destino inatteso.
«La mattina ci hanno preso, fatto la visita e detto: domattina dovete partire. E noi: ok, ma vogliamo sapere dove si va. E il soldato: dove andate sono affari nostri. Badoglio ha firmato l’armistizio senza condizioni e noi possiamo fare quello che più ci piace di voi. Ci caricarono sui camion e mandarono a Darwin nel deserto, per fare le ferrovie. Quaranta gradi all’ombra. Era pieno di zanzare, il caldo che bruciava. Da crepare».
Menchetti sarà poi rilasciato due mesi più tardi, a fine ’43, Bandoni soltanto nel ’45 come Cerri mentre Vannucci nel ’46. Menchetti è diventato un imprenditore ed è rimasto a vivere in Australia, gli altri sono rimpatriati.
Resta da chiarire perché se ne sa poco. «A fine guerra – spiega Marco Lenci, professore di storia contemporanea all’Università di Pisa – l’Italia si trovò in qualche modo alleata coi vincitori. Fare una analisi critica dei campi di internamento, significava criticare gli alleati nuovi e quindi capirne il comportamento. Ce ne erano negli Usa, nelle colonie francesi, in quelle inglesi e via e via. Solo venti-trenta anni fa si è cominciato a studiare attentamente il problema dei campi di prigionia. Questo anche perché le fonti di queste storie vengono dalla memorialistica personale. E solitamente uno pensa alle sue memorie, quando è vicino alla morte».
Molti anni più tardi uno di questi quattro testimoni, Bandoni – oggi deceduto come gli altri intervistati – provò a farsi riconoscere lo statuto di prigioniero ma si sentì rispondere dallo stato australiano che era stato internato su base volontaria.
«Fino agli anni ’90 il governo australiano non voleva scusarsi con i civili italiani per l’internamento – specifica Rando – nonostante fosse un fatto ritenuto importante dalla collettività italo-australiana. Il riconoscimento ufficiale è avvenuto non molti anni fa».