Il marchingegno è stato illustrato recentemente da Giuliano Cazzola: se vuoi fare le riforme, ti serve un partito liberal-democratico riformista che arrivi almeno al 10%. E per raggiungere tale livello, serve una legge elettorale proporzionale, che riconosca a ciascuno il suo. Dunque no al maggioritario! Ma, osserva Pietro Ichino su Libertà eguale, la legge proporzionale produce instabilità e ingovernabilità. E questa rende impossibile progettare/realizzare qualsiasi riforma. Basta guardarsi indietro e attorno. Supposto di poter disporre di un simile partito liberal-democratico riformista, sarà fatalmente immobilizzato nella palude proporzionale.
Meglio, dunque, il maggioritario e giocarsi l’egemonia dentro uno dei due poli. Non facile. Quale soggetto lo farebbe? Almeno per ora, appellarsi alla buona volontà unitaria dei singoli protagonisti dell’area riformista per assemblare un tale soggetto – unico o federato? – appare vano, con o senza proporzionale, come è apparso evidente nell’ultimo confronto diretto da Christian Rocca per Linkiesta. Le buone volontà ci sono, ma sono strabiche. Così, lo scenario che si apre è, semmai, quello della guerriglia dentro il sistema politico, condotta singolarmente da piccole compagnie di ventura.
Realismo imporrebbe di prendere atto che la struttura attuale della politica non produrrà mai governi stabili e perciò mai riforme. E dove non nascono riforme, non nascono movimenti riformisti, ma solo rabbie populiste eversive o stagnazione e declino. Da anni i riformisti sono impegnati a definire la Summa delle riforme necessarie, ma la struttura della politica impedisce semplicemente di porvi mano. Perciò, il primo campo di battaglia per l’area riformista è esattamente questo: la riforma della struttura della politica.
Quale struttura e quale cambiamento necessario? Quale struttura è presto detto. Se vuole partecipare alle decisioni pubbliche, che toccano il cittadino comune, gli piaccia o no, egli si deve associare con altri suoi simili in un partito. Se il partito è abbastanza democratico, il cittadino suddetto può partecipare a congressi, votare i gruppi dirigenti, candidarsi in una lista elettorale. È un partito-oligarchia? Lo sono pressoché tutti. Ma, spiegava realisticamente Giovanni Sartori, la democrazia è esattamente il prodotto della competizione di queste oligarchie. La democrazia è salva, la politica un po’ meno.
Il partito partecipa alla competizione, sulla base di una legge elettorale che ha contrattato con gli altri. La storia della Repubblica ha conosciuto diversi sistemi elettorali: proporzionale fino al 1994, poi il Mattarellum, poi il Porcellum, l’Italicum, il Rosatellum. Di simile hanno la desinenza neutra e il risultato finale. Infatti: una volta riempito il Parlamento, il cittadino quotidiano può tornare a casa, il suo parere non è più richiesto. Di qui in avanti le decisioni, prima fra tutte, quella della scelta del Governo, sono di esclusiva spettanza degli eletti, controllati dai partiti. In effetti, i partiti hanno un duplice potere: quello di formare la rappresentanza e quello di scegliere il Governo. È la democrazia parlamentare.
Ha garantito governi pochi e stabili? Dal 1994 a oggi, per tacere del periodo dal 1948 al 1994, i governi sono stati 17. Tre nell’ultima legislatura, tre in quest’ultima, non ancora finita. Niente stabilità, niente riforme. Molte promesse, nessuna realizzata. La legislatura del cosiddetto maggioritario dal 1996 al 2001? Quattro governi: 1 Governo Prodi, 2 governi D’Alema, 1 governo Amato.
Di quante altre prove abbiamo ancora bisogno per prendere atto che un sistema in cui le oligarchie dei partiti detengono insieme i due massimi poteri fondamentali: il legislativo e l’esecutivo, in tale sistema non c’è sistema elettorale che sia in grado di garantire stabilità e forza dei Governi?
Di quanto eterno ritorno del niente, delle chiacchiere, delle promesse baldanzose e impotenti, delle batracomiomachie, delle baruffe chiozzotte, dell’inutile e dell’inconcludente dobbiamo ancora soffrire? È questa struttura della politica che da voce e forza a ogni corporazione e che soffoca sul nascere esperienze e idee di innovazione. È questa struttura politica il vestito su misura di un Paese in declino.
Ecco: riformismo vuol dire spezzare questa struttura politico-istituzionale. In quale direzione? Riconoscere ai cittadini il potere di scegliere direttamente il proprio rappresentante nel proprio collegio uninominale, a doppio turno, e il Capo dello Stato, a doppio turno. Dunque: prima viene il sistema istituzionale, poi quello elettorale. Il viceversa non è ancora accaduto.
E i partiti? Lo spiegava già Maranini: «Purché questi enti rimangano in una posizione intermedia, assolvano la funzione di mediatori fra il cittadino e lo Stato, e non diventino i padroni insieme del cittadino e dello Stato… non diventino mezzi per confiscare la sovranità dell’elettore in favore di ristrettissimi comitati, di strutture burocratico-gerarchiche…».
Chi può spezzare questo circuito di autoconservazione del sistema? Non i partiti, ovviamente. I riformisti possono continuare ad aggirarsi in questo labirinto, a proporre idee mirabili sull’industria, il lavoro, il fisco, la scuola, il digitale terrestre e celeste…, ma non sono in grado di combinare granché. Volgendoci indietro, i momenti di cambiamento – riuscito, tentato, fallito – della struttura della politica sono stati quelli in cui, non i partiti, ma i cittadini sono stati chiamati alla mobilitazione.
Il primo è quello del referendum Segni del 1991, preparato dal “Manifesto dei 31” del gennaio 1998. Ha proposto un nuovo sistema elettorale: il maggioritario. Il secondo è stato quello dell’irruzione di lunga durata del Movimento Cinque Stelle negli anni che vanno dal 2009 al 2018. Ha proposto un nuovo sistema politico-istituzionale, fondato sul superamento della rappresentanza, sulla democrazia diretta, sul governo tecnico-amministrativo. Fortunatamente fallito, non senza far grossi danni. Il terzo quello del referendum del 2016 di Matteo Renzi, che ha proposto modifiche nella struttura istituzionale della rappresentanza, senza arrivare alla Repubblica presidenziale. Sfortunatamente fallito, con grossi danni.
Hanno avuto in comune, al di là degli esiti, una caratteristica positiva: l’appello ai cittadini, fuori dall’alveo dei partiti. È illusorio vincere la resistenza dei partiti dall’interno, con la forza e la bellezza delle idee migliori, per la semplice ragione che le loro oligarchie, burocratiche o carismatiche, non sono disponibili a perdere l’immenso potere di cui dispongono. Per di più il fallimento del progetto populista di cambiamento politico-istituzionale ha rafforzato la pretesa dei partiti di essere l’unica architrave possibile della democrazia
Eppure: quanti cittadini sarebbero interessati aduna elezione diretta del deputato, quanti a disporre di un governo forte? Quanti a una Repubblica presidenziale? Forse non troppi dipendenti pubblici, non troppi pensionati, ma certamente chiunque operi nella produzione su scala nazionale e globale, chiunque voglia cambiamenti rapidi e radicali, chiunque voglia ragionevoli certezze per progettare il proprio futuro, chiunque ami “la democrazia diretta”, nella “versione buona”. Non come esercizio diretto, ma come potere diretto di delega al deputato eletto e potere diretto di scelta del Capo di Stato/governo. Illiberale tutto ciò? Chi vorrà potrà tornare all’Alleanza costituzionale di Giuseppe Maranini e alle posizioni di Rosario Romeo, due grandi liberali.
Un movimento riformista non nascerà senza una messa in movimento di cittadini, di forze sociali e intellettuali, senza una campagna di opinione che approdi a un movimento referendario.