L’arte di sottrarsiTutti vogliono raccontare il mondo ma la vera eleganza è rimanere in disparte e parlare di sé

Non c’è più una singola persona che non pensi di saper scrivere: i peggiori sono quelli che si distinguono per l’inutile tentativo di eliminare l’ego. E invece dovremmo finalmente ammettere che l’Incapace parla della realtà per parlare di sé; il Capace parla di sé per parlare della realtà e nessuno lo spiega meglio di Zadie Smith nel suo ultimo libro

Bryan Bedder / GETTY IMAGES NORTH AMERICA / Getty Images via AFP

Di tutte le divisioni in classi sociali, la più crudele è forse quella tra chi sa scrivere e chi no. A renderla spietata è la mancanza di consapevolezza della seconda fascia di popolazione. Mentre chi non sa come pagare l’affitto difficilmente s’illuderà d’essere ricco, nell’epoca in cui tutti passiamo le giornate a scrivere – messaggi, tweet, status, email – tutti siamo convinti di saper scrivere.

È la naturale evoluzione di quella battuta che Nora Ephron aveva affidato a Carrie Fisher in Harry, ti presento Sally: tutti credono d’avere buon gusto e senso dell’umorismo. Trent’anni dopo, tutti credono d’avere una prosa irresistibile.

Chiunque scriva di mestiere – che appartenga ai Capaci Pochi o agli Incapaci Molti – ha prima o poi dovuto congedare postulanti – che fossero avvocati, professori, il ristoratore sotto casa – che gli dicevano che anche loro avevano l’idea per un articolo, un romanzo nel cassetto, una sceneggiatura perfetta, e serviva solo che tu, tu del mestiere, tu che mica vorrai non essere generoso con chi ambisce, li facessi entrare nel grande giro. Anche loro possono guadagnarsi da vivere scrivendo.

Ci sarebbe da analizzare il fatto che meno l’umanità è disposta a pagare per leggere più l’umanità è convinta di potersi guadagnare da vivere scrivendo, ma magari lo facciamo un’altra volta, perché oggi voglio parlarvi del sistema castale. Di come si riconoscono gli Incapaci.

È facilissimo. Non c’è neanche bisogno di leggerli. L’Incapace dirà sempre, senza che nessuno gliel’abbia chiesto, che lui detesta la prima persona. L’Incapace aborre l’ego. L’Incapace ritiene ci si debba fare da parte, mica dire «io, io, io».

L’Incapace userà dei plurali, o dei riflessivi assurdi, pur di non dire «io», e più soffocherà il pronome naturale più l’ego gli uscirà da tutte le parti, impedendogli di raccontare alcunché d’interessante. Il Capace dirà senza esitazioni «io», e vi aprirà universi.

L’Incapace parla del mondo per parlare di sé; il Capace parla di sé per parlare del mondo.

Questa cosa che io ci ho messo trenta righe a spiegare, Zadie Smith la sintetizza in mezza riga all’inizio di “Intimations”, il suo libro della quarantena (esce in contemporanea questa settimana in America e in Italia, qui con l’imbarocchito titolo “Questa strana e incontenibile stagione”, edito da Sur).

Dice quella mezza riga: scrivere significa farsi origliare.

Zadie Smith si aggira per New York, prima di fuggirne, e poi per Londra, all’inizio della quarantena, e osserva l’umanità. E, siccome si fida dei suoi «io», lascia che origliamo mentre l’umanità la porta altrove. Un tizio con un cartello a Washington Square le innesca una riflessione sulla stupidità di certi automatismi linguistici: che significa «crimine d’odio»? Ci sono omicidi che non comportano che tu odiassi quello che ammazzi?

Un tizio in monopattino che le passa di fianco per strada, un tizio che conosce perché lavora alla biblioteca dell’università, le fa riconsiderare le parole che usa all’inizio d’ogni corso universitario (è una cosa che fanno, i Capaci: riconsiderare le parole), quella frase di Susan Sontag secondo cui lo stile è un’insistenza, e ripensare all’«infinita promessa della giovinezza americana», una bugia articolata dai film e dalla pubblicità e dalle università, quando in realtà, l’avete già capito, la giovinezza è solo la proprietà d’uno stile.

Le mie pagine preferite sono all’inizio del libro, e parlano della mia manicure cinese a Milano. In realtà parlano del suo massaggiatore cinese a Manhattan, ma ve l’ho detto: quelli capaci, eccetera. La conversazione casuale in cui si finge di appartenere alla stessa classe sociale e che i problemi della quarantena siano uguali per entrambi. Il senso di colpa quando vedi il negozio vuoto ma non hai bisogno di servirtene e allora attraversi la strada per non incrociare lo sguardo di chi aspetta clienti. Sono sei paginette scarse, e dentro c’è un sacco di «io», e quindi c’è tutto il mondo.

Perfino da uno stupidissimo meme, una di quelle foto che girano sui social e che guardiamo senza vederle, in questo caso era una foto dal set della Passione di Cristo, Mel Gibson parlava con l’attore che faceva Cristo, ricoperto di sangue, e la didascalia diceva «quando spiego ai miei amici con figli sotto i sei anni com’è stato farmi tutta la quarantena da solo», persino da quello Zadie Smith cava una riflessione interessante su sofferenza e privilegio, due bolle che abiti comunque da solo, indipendenti dai fattori oggettivi e inspiegabili all’esterno.

Il meme devono averglielo mandato via email, e deve averlo aperto sul computer: Zadie Smith non ha un telefono che si colleghi a internet o faccia foto, e non è sui social (quindi ora non deve preoccuparsi che qualcuno commenti: stai dicendo che la tua manicure e il suo massaggiatore sono uguali perché per te i cinesi sono tutti uguali, razzista).

Dev’essere per quello, per quell’elegante sottrarsi, che ogni dettaglio del ragazzo col cartello o del massaggiatore diventa una pagina, invece che un tweet (se fosse esistito Instagram, Tracey Emin avrebbe preso dei cuoricini per il suo letto sfatto, invece di usarlo per diventare una delle più importanti artiste degli ultimi decenni: prima o poi questo problema dovremo porcelo).

Negli stessi giorni in cui ho letto il libro di Zadie Smith, ho intervistato Ottessa Moshfegh (il suo “La morte in mano” esce a fine agosto, edito da Feltrinelli).

Neanche Ottessa è sui social (anche se ha un telefono di questo secolo), forse è per questo che ha già pianificato i prossimi cinque libri. Quando gliene ho parlato, mi ha detto dell’eventualità di essere presente su un social che le risultava incomprensibile come qualcuno che di mestiere scrive potesse scegliere d’esserci, «credo che mi rovinerebbe la vita, che mi rovinerebbe le giornate. Per essere creativa devi essere libera di lasciarti andare. Essere sempre lì a cercare di capire cosa twitteranno di te se scrivi la tal cosa è una specie di nevrosi autocensoria. Nessuna buona arte è mai uscita da una mente che stava cercando di non offendere nessuno. Come si fa a essere innovativi? È impossibile».

Di tutte le divisioni in classi sociali, la più crudele è forse quella tra chi non accetta cuoricini dagli sconosciuti, e noialtri.

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