I partiti ballano da soli, il governo governa. Ci stiamo abituando a questo sfalsamento di immagini come in un film di Orson Welles (“La signora di Shangai”, 1947), a questo gioco di specchi cui bisogna che gli osservatori e gli stessi leader facciano attenzione. Già, perché in una situazione classica le varie fibrillazioni dei e tra i partiti avrebbero determinato problemi sull’azione del governo: ma in questa fase – diciamo così – postpartitica, l’esecutivo di Mario Draghi sembra impermeabile alle tensioni dei partiti.
Così che – azzardiamo già adesso – l’esito del voto di ottobre nelle grandi città avrà ripercussioni molto forti sui partiti ma nulle sul governo: a dieci settimane dal semestre bianco, quando cioè non si possono più sciogliere le Camere, il governo Draghi naviga tra i perigli della politica in forza della situazione eccezionale (la fase cruciale della campagna di vaccinazione, l’avvio del percorso riformatore) e grazie alla già consolidata autorità del presidente del Consiglio.
Malgrado questo quadro strutturale, le tensioni sono affiorate ieri nel Consiglio dei ministri a proposito del decreto ristori, quando si è visto che ogni partito spingeva in una direzione diversa, e si è avuta la netta impressione che senza la presenza fisica di Draghi il governo sarebbe già in difficoltà proprio a causa delle rispettive bandierine che ciascun partito vuole piantare su questo o quel dossier.
Eppure, fuori da palazzo Chigi, è tutto un rincorrersi di pasticci. Il più clamoroso dei quali ovviamente è il disastro combinato dal Partito democratico sulle amministrative di Roma e a cascata a Torino e chissà dove altro ancora, una carambola che ha strappato il tappeto verde del biliardo sul quale Enrico Letta e i suoi tentavano il colpo a effetto.
Come sempre in questi casi si dà la caccia al responsabile del crac romano, dentro e fuori il Nazareno: e mentre partono i primi sussurri contro i soliti Andrea Orlando, Goffredo Bettini, Dario Franceschini (che vede sfumare ancora una volta la possibilità di diventare presidente della Camera dato che Roberto Fico non si candiderà a Napoli) che sarebbero colpevoli quantomeno di non aver dato una mano alla causa, è naturale che il Pd ce l’abbia anche con quel Giuseppe Conte che alla prima prova si è dimostrato incapace di imporre un minimo di direzione politica a un Movimento pazzotico di cui pure vorrebbe prendere le redini.
E se Conte si è rivelato inetto, che dire di un Di Maio che pure aveva dato l’ok all’operazione-Zingaretti? Ed è persino inutile sottolineare che nel Pd già serpeggiano il dubbi sulla efficacia della direzione di Letta e sull’incaponimento sulla linea dell’alleanza strategica col M5s di fatto naufragata: se non è già caccia a Letta poco ci manca.
La nuova freddezza fra i due partiti che in teoria dovrebbero costituire se non il perno, almeno l’asse forte della maggioranza di governo, va a sommarsi con l’ormai storica contrapposizione tra Letta e Salvini che abbiamo già visto con la mortificante disputa sull’allungamento o meno del coprifuoco.
Solo che adesso in ballo c’è qualcosa di molto più corposo, il ritorno della emergenza-sbarchi a Lampedusa. Con gli hotspot già in grande difficoltà, è facile prevedere che con la buona stagione il fenomeno degli arrivi sia destinato a riesplodere, e con esso il conflitto fra Pd e Lega.
Letta ha già proposto una soluzione che il partito di Salvini (con il sottosegretario all’Interno Nicola Molteni, un “duro”) ha bocciato senza mezzi termini: «Credo – aveva detto il segretario del Pd – che la missione militare europea Irini di fronte alle acque libiche per lo stop al commercio delle armi debba essere trasformata: deve diventare la missione che consente di gestire il salvataggio in mare». Una follia, per Salvini.
Toccherà alla ministra Luciana Lamorgese affrontare la nuova emergenza. A questo proposito sono circolate voci, rilanciate dai giornali di destra, circa un presunto commissariamento della titolare del Viminale attraverso una nuova cabina di regia allargata ai ministri Lorenzo Guerini (Difesa), Luigi Di Maio (Esteri) ed Enrico Giovannini (Trasporti), ma l’intenzione di Draghi è semmai opposta, cioè quella di aiutare la ministra dell’Interno e non viceversa, costruendo insomma una linea in grado di reggere al prevedibile assalto del solito Salvini (magari in concorrenza, anche e soprattutto su questo tema sensibile per la destra, con Giorgia Meloni).
Di certo, la preoccupazione del presidente del Consiglio è quella di salvare vite umane, al tempo stesso tentando però di governare il fenomeno, e qui Draghi userà la sua autorevolezza in campo europeo per richiamare gli altri Paesi alla cosa che si dice sempre ma non si ottiene mai: la condivisione della gestione del problema umanitario. Roba seria, altro che le carambole dei partiti.