L’operazione-Letta non sta funzionando: tutte le recenti mosse del Partito democratico per spostare a sinistra l’asse politico del governo Draghi sono state praticamente tutte respinte al mittente. Non c’è finora un solo risultato concreto che il segretario venuto da Parigi possa sventolare, né sui temi sociali né su quelli di principio: ed è una cosa ben strana tenendo conto che il Pd nella maggioranza ha un peso politico notevolissimo e un capo del governo certo non insensibile a istanze di progresso. E allora, come mai zeru tituli?
Guardiamo brevemente i fatti. La proposta di Letta di aumentare le tasse di successione per finanziare una dote per i giovani è stata di fatto bruciata. Lo sa anche il segretario che dopo aver buttato il sasso in piccionaia ha chiarito che la proposta, semmai vedrà la luce, sarà contenuta nella riforma generale del fisco che Mario Draghi ha annunciato per i prossimi mesi, il che poteva essere detto subito invece di montare una piccola campagna di propaganda per ragioni di pur legittima visibilità.
Sul tema dei licenziamenti, il ministro Andrea Orlando, che nel governo rappresenta la sinistra senza aggettivi e che riceve gli apprezzamenti di Peppe Provenzano e Roberto Speranza più che di Mario Draghi, ha dovuto subire uno stop alla sua proposta di proroga del blocco dei licenziamenti, peraltro a quanto sembra portata in Consiglio dei ministri un po’ alla chetichella. Il ministro si è scontrato con la rigidità di Confindustria, le critiche di segno opposto dei sindacati e con il presidente del Consiglio che si rende conto di un fatto oggettivo: che bisogna prepararsi a gestire un problema sociale e non a esorcizzarlo.
Sulla legge Zan, che non sta facendo passi avanti, anzi, il Governo non c’entra. Ma viene comunque da chiedersi come sia possibile che stia prevalendo l’ostruzionismo della destra (grazie a una incredibile gestione del presidente della commissione giustizia, il leghista Ostellari diventato famoso per l’attacco di Fedez più che di Zanda e degli altri senatori dem) malgrado in Senato vi possa essere una maggioranza laica che evidentemente è sulla difensiva.
Quanto alle proposte di Letta sul voto ai sedicenni e sullo ius culturae: zero zero carbonella. Infine, sulle due missioni fondamentali del governo – campagna di vaccinazione e Recovery plan – il Pd non ha fatto praticamente nulla, essendo stata peraltro più che sufficiente l’azione del governo Draghi (mentre è singolare che il Nazareno si opponga alla istituzione di una Commissione d’inchiesta sulla gestione della prima fase della pandemia, pur di non dispiacere al missing Giuseppe Conte e a Mimmo Arcuri).
Questi i fatti. Come ha scritto Claudio Cerasa, «apparentemente, il Pd ha tutto quello che gli dovrebbe servire oggi per avere la strada spianata verso un orizzonte pieno zeppo di successi». E allora perché dunque questo sostanziale – provvisorio, certo – fallimento della sua iniziativa politica?
Una prima risposta è persino banale: perché alcune proposte, soprattutto quella sull’aumento della tassazione per le successioni, sono state avanzata un po’ casualmente, fuori contesto, senza una corrispondente campagna d’informazione e di costruzione di alleanze, deboli nel merito, sospette di demagogia.
Ma la ragione vera, più politica, è che l’agenda Letta appare in distonia con quella del governo. Il Pd cioè non sembra disporsi nel nuovo corso draghiano con senso pratico, duttilità, fattività. Vive una sua vita autonoma da quella del governo pur essendo del governo la spina dorsale, stenta ad accettare il protagonismo di un presidente del Consiglio decisionista nella sostanza ma lontano dalle forme arroganti di suoi illustri predecessori, si imbizzarrisce a ogni uscita di Matteo Salvini – amplificandone le gesta invece di rintuzzarle -, si mette nella condizione in cui se parla sbaglia e se non parla sbaglia di più. Così si ha l’impressione che Draghi fa e il Pd chiacchiera, accumulando questioni frullate nervosamente e fuori contesto.
Vorrebbe lottare, questo Pd più “radicale”, vorrebbe protestare, mentre qui si tratta di governare. E dunque invece di cogliere tutte le opportunità che gli derivano dal suo ruolo in un esecutivo dove bisogna tirare dalla parte del riformismo, invece di essere il partito a supporto di Mario Draghi, il Pd si agita con il rischio – diceva Gramsci – di «tirare calci al buio» e di autoisolarsi, magari riscuotendo applausi da Zoro o da una minoranza di giornalisti sempre in tv. Ma rischiando l’irrilevanza politica. E non è una buona notizia, un Pd messo così.