Ogni cosa è determinataViaggio nell’illusione del libero arbitrio

Sulla base delle nuove scoperte della neuroscienza, si fa strada la convinzione, dibattuta da millenni dai filosofi, che la possibilità di scegliere o di decidere sia soltanto un inganno e che tutto, nella meccanica dell’universo, sia già stabilito. Ma alcuni filosofi non sono d’accordo

da Unsplash

Nella sua accezione più semplice, il libero arbitrio si traduce nella possibilità di scegliere tra più opzioni senza costrizione. Se una persona ha fame, si alza dal divano e apre il frigorifero. Tra una mela e una banana, sceglie la seconda. Esercitando così il proprio libero arbitrio.

È così? Secondo alcuni scienziati no. Al contrario: il libero arbitrio non esiste, ogni cosa è giù predeterminata, forse anche dalla notte dei tempi e l’essere umano, che si culla nella convinzione di potere scegliere, in realtà non è altro che un esecutore di una serie di meccanismi che vanno avanti da sempre. È la posizione di psicologi come Steven Pinker e Paul Bloom, lo pensa anche il biologo Jerry Coyne, sono d’accordo anche una serie di neuroscienziati come Sam Harris, che ha esposto la sua visione in un libro, e l’intellettuale pubblico Yuval Noah Harari.

Come ricorda questo lungo articolo del Guardian, si tratta di una opinione che ha una tradizione antica, su cui si discute da millenni. Si è tornato a parlarne perché, con le nuove strumentazioni, è possibile analizzare nel dettaglio (anche se non significa capire fino in fondo) i meccanismi cerebrali che sottostanno a una decisione che rendono molto facile considerarle come una delle tante meccaniche autonome dell’universo. L’intervento di una coscienza, la sua formulazione e la possibilità di scegliere sarebbero soltanto un’illusione. Del resto, attraverso una serie di misurazioni molto accurate, si è scoperto che le nostre scelte autonome sarebbero originate nel nostro cervello millisecondi prima che ne abbiamo coscienza.

Le conseguenze di questa posizione sono intuibili ma molto inquietanti. Quasi tutta l’architettura della nostra società si basa su questo assunto fondamentale. La libertà di decidere implica la responsabilità delle proprie azioni, nel bene (merito, attività virtuosa, successo) e nel male (punizione, sanzioni giuridiche, biasimo). Implica la convinzione di poter migliorare la propria esistenza e il rischio di poterla peggiorare.

È sulla scelta libera che si decidono amicizie e alleanze, che si fanno carriere, che ci si comporta come bravi cittadini, o consumatori attenti.

Tutta l’esistenza, insomma, poggia su questa convinzione che, una volta tolta, potrebbe corrodere i rapporti umani. Per questo motivo molti scienziati sposano una tesi paternalista: è l’illusionismo. Se constatare che il libero arbitrio non esiste è così pericoloso, è meglio mantenere in piedi la sua illusione per la tenuta della società.

La logica alla base di questa posizione è abbastanza semplice. Tutto ciò che accade al mondo deve essere stato causato da qualcosa che è avvenuto prima. E questo qualcosa, è stato a sua volta cagionato da altre cause che lo hanno preceduto. È un percorso che va a ritroso (quasi in cerca del motore immobile aristotelico) e che riguarda anche tutti i microprocessi che avvengono a livello neuronale nell’universo. I pensieri non sono altro che impulsi elettrici, seguono le stesse leggi della fisica. Lo pensava, nel 1814, Pierre-Simon Laplace: se l’universo funziona come un orologio, come possiamo anche solo pensare di essere liberi? Se un essere ipotetico, esterno alle cose (noi non lo siamo, i nostri atomi fanno parte della realtà) potesse conoscere, oltre alla totalità delle leggi che governano la materia, anche la posizione di ogni elemento dell’universo saprebbe prevedere il futuro.

La scienza e la fisica quantistica hanno abbattuto, almeno in parte, questo assunto, dimostrando che una dose di casualità imprevedibile è costitutiva. Ma per gli scettici del libero arbitrio non cambia più di tanto la questione: si tratta di variazioni minime, di carattere infinitesimale. E comunque la casualità, se pure si oppone alla determinatezza, non implica certo il libero arbitrio.

Del resto basta poco a incidere sulla capacità di scegliere. Un disturbo al cervello, come un tumore, è in grado di provocare alterazioni della personalità (e della volontà) che portano a conseguenze incredibili. Il caso di Charles Whitman, ex marine di 25 anni, è uno dei più eclatanti. Fu il protagonista di una delle stragi più sanguinose degli anni ’60: uccise la madre a coltellate, poi la moglie e, dopo aver preso armi da fuoco, si installò in un palazzo dell’Università del Texas, da dove sparò per un’ora e mezza.

Nei minuti che precedettero la sua uccisione da parte della polizia, l’uomo aveva lasciato scritto alcune note in cui confessava di non essere in grado di capire cosa gli stesse succedendo. Sentiva di essere soggetto a forze estranee e chiedeva agli scienziati, dopo la sua morte, di esaminare il suo corpo. La scoperta di un tumore al cervello, appunto, portò l’opinione pubblica a riconsiderare la sua responsabilità generale, riducendone la portata.

Ma come spiegano i filosofi, lo stesso fenomeno vale sempre: ogni azione è causata da una miriade di influenze precedenti che la determinano e che non sono, in ogni modo, sotto il controllo del soggetto. Il tumore è solo una delle più macroscopiche. Ma sono tantissime: genetiche, ambientali, anche all’apparenza casuali. Chi riesce a migliorare la propria condotta, vuol dire che era già dotato di una personalità che glielo permetteva. Chi invece continua a macchiarsi di colpe e reati, vuol dire che non può fare altrimenti. Detto in altre parole: se hai i geni di Hitler e vieni educato come Hitler, allora be’, sei Hitler. L’unica cosa che conta è la fortuna.

Eppure, nonostante queste argomentazioni possano apparire convincenti, la maggior parte dei filosofi non le condivide. Da un lato, è una questione di sfere di competenza. Molti vivono con fastidio il fatto che questioni su cui si dibatte da secoli vengano considerate risolte sulla base di alcune nuove scoperte scientifiche. Dall’altro (e forse questo stupirà un po’ di più), nessuno di questi filosofi nega, o sostiene di negare, la verità di quanto sostenuto finora. Soltanto, spiegano, è possibile conciliare libero arbitrio e determinismo.

È la corrente “compatibilista” che, nel tentativo di fare convivere una realtà già preordinata con la possibilità dell’uomo di prendere decisioni e assumersi responsabilità, ha degli antecedenti illustri, come Tommaso d’Aquino (che doveva far convergere la creazione perfetta di Dio e la scelta dell’uomo per la salvezza).

Il punto è che, per tornare all’esempio delle mele e delle banane, se si potesse riannodare il nastro del tempo e ritornare al momento della scena, sostengono, è ovvio che si sceglierebbe sempre la banana (o la mela, a seconda delle preferenze) perché le condizioni di quel momento, in quell’istante e in quella situazione, portavano solo a quel risultato possibile.

Ciò però non ha nulla a che vedere con il libero arbitrio. Se lo si interpretasse così sarebbe illusorio come «un poltergeist», scrive Dennett. Al contrario, il libero arbitrio è la possibilità di pensare e riflettere sulle proprie azioni e di poterle seguire. Una persona che sceglie una banana in piena libertà è in una posizione diversa da una persona che, con una pistola puntata alla tempia, deve trovarsi obbligata a mangiare una banana.

Il libero arbitrio, insomma, va definito come una qualità più basica, lontana dalle ispirazioni metafisiche sollevate dai neuroscienziati. Una attitudine, verrebbe da dire, che si sviluppa con l’età (un adulto ha più capacità di riflettere sulle proprie decisioni rispetto a un bambino) e si valuta sulla base delle circostanze (una persona sotto ipnosi ha meno libero arbitrio rispetto a una persona nel possesso delle sue facoltà). Per i compatibilisti l’uomo può, insomma, fare quello che vuole. Ma non può volere quello che vuole.

In ultima analisi, anche se è davvero difficile stabilire se esista una volontà libera e se, prima ancora, esista un soggetto in grado di contemplarla, oltre che farsene portatore e non sia tutto soltanto un intreccio di esperienze (una visione simile al buddismo), il solo fatto di porsi la questione ha un effetto positivo.

Aiuta a considerare che, nelle vite di ogni individuo, sia i meriti e le fortune che le colpe e le disgrazie dipendano solo in parte dalle sue scelte. Concentrarsi sulle cause remote che le hanno determinate, valutare le condizioni esterne che le hanno causate, permette una visione più ampia e completa delle traiettorie umane, delle esperienze possibili e immaginabili. In un senso di unità, umana, più comprensivo e indulgente.

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