La via per la costruzione della nuova politica è lunga e difficoltosa. Soprattutto, è resa complicata dalla resistenza, inaspettata, delle vecchie ideologie nel dibattito pubblico. Eppure, come spiega questo lungo articolo apparso sul New Statesman, a firma dell’economista Paul Collier, c’è una battaglia di idee che sta cominciando, sarà radicale e riguarderà tutti i partiti, andando a dividerli anche al loro interno.
In questo senso, distingue tra chi «va avanti (leap)» e chi «rimane stretto al passato (cling)». Si tratta di una nuova idea di società in cui lo Stato non lavora più per i cittadini, ma con i cittadini, incardinato su una giustizia «del contributo» e non più «della distribuzione». Abbandona la mentalità risarcitoria delle lagnanze del passato e si concentra sulla soluzione delle ansie per il futuro. Soprattutto, vuole coinvolgere il cittadino in un ruolo attivo e partecipativo, agendo a livello locale o nazionale a seconda della questione da affrontare.
Rispetto alla «uguaglianza di opportunità» della Terza via di Tony Blair e alla «uguaglianza di risultati» socialista si pone come «uguaglianza di condizioni». I diritti, insomma, richiedono diritti e partecipazione.
Il discorso di Collier parte da lontano, ma le premesse su cui viene elaborato sono raccolte tutte in volumi usciti soltanto negli ultimi anni. Da “Radical Uncertainty” di John Kay e Mervyn King ricava l’idea secondo cui la società contemporanea sia troppo complessa per essere compresa davvero. L’unica strada, parziale ma pragmatica, è quella della sperimentazione, del tentativo e della scoperta.
Per questo – ed è il senso del secondo volume considerato – bisogna ricordare che l’evoluzione ci ha portato a condividere e diffondere le idee prendendole non dagli individui più intelligenti o acuti, ma dalla maggioranza della comunità di riferimento. Ha senso, ricorda: gli occhi di più persone, nel tempo, hanno avuto modo di osservare e sperimentare di più rispetto a individui geniali ma, per definizione, limitati a se stessi.
Questo secondo aspetto, cioè la dipendenza dalla comunità per l’elaborazione di idee e valori nuovi, è a un tempo un problema e una soluzione. Rischia cioè di diventare pericoloso quando queste idee, autorealizzandosi, cominciano a formare il comportamento e le aspettative dei suoi membri. Diventano, in un certo senso, una condotta collettiva e una forma di identità.
Di fronte al sicuro fallimento (la società, si è detto, è troppo complicata per essere compresa da un set di convinzioni già disposte) genera risposte autodifensive, che sono necessarie per non dover rivedere tutto da capo ma che hanno il grave difetto di essere false, o esagerate, o del tutto slegate dalla logica.
Pensare che la Brexit sia dovuta alla xenofobia delle classi operaie del nord dell’Inghilterra, prosegue il ragionamento, non è una spiegazione. È, al contrario, una autogiustificazione che non aiuta a comprendere le ragioni di un fallimento (la Brexit, appunto) e al contrario contribuisce a dividere il partito laburista a livello regionale.
Non solo. Tra i membri del Labour è molto diffusa (ed è anche questo un ostacolo) l’idea che la legge debba essere concepita come uno strumento per la difesa delle minoranze dalle maggioranze.
È un errore: la legge funziona proprio al contrario. Serve piuttosto a rafforzare l’aderenza a quegli obiettivi comuni su cui si è trovato un accordo attraverso il processo democratico. Sono questi che vanno tutelati proprio dalle iniziative delle minoranze (spesso quelle più potenti). E anche la stessa maggioranza va tutelata dal controllo degli enti statali da parte di gruppi di pressione bene introdotti, cioè le lobby. È il potere dello Stato che, attraverso le leggi, va tenuto a bada.
Insomma, le idee funzionano per gruppi (o comunità), si basano sull’adesione a certi valori e si propagano solo attraverso le relazioni, i legami, le reti sociali. Per questo, sostiene, per favorire l’avanzamento della società di fronte all’incertezza della realtà, è necessario favorire la maggior connessione possibile tra le persone. Creare, cioè, un dibattito esteso a livello sociale.
Un esempio virtuoso? La Danimarca. È una delle società meglio funzionanti al mondo secondo tutti i parametri e, soprattutto, un Paese che cerca di distribuire la partecipazione e l’agency, cioè la possibilità di agire e di cogliere il frutto dei risultati, a tutti i livelli della società. Se tutti sono collegati, allora anche le idee viaggiano meglio e prima (e lo si è visto con la pronta risposta danese al Covid).
È su questo modello, allora, e sulla scorta del libro di Michael Sandal “La tirannia del merito”, che Collier propone di ripensare dalla base l’organizzazione della società.
Il volume di Sandal è ritenuto importante perché propone due idee innovative: prima di tutto, come è intuibile dal titolo, si disfa dell’idea di meritocrazia (concetto che, viene ribadito, nasce in forma ironica per descrivere una società distopica) e, soprattutto, dei suoi effetti negativi. Il principale sarebbe quello di avere creato una società di vincenti e perdenti, in cui questi ultimi si trovano privati di ogni forma di dignità: se hanno perso è colpa loro.
La seconda idea è quella di una «giustizia contributiva»: nel creare degli obiettivi comuni, non solo ogni membro della società è tenuto a partecipare, ma deve anche avere degli obblighi reciproci che lo orientano verso questi stessi obiettivi. «È da questi impegni che nascono i diritti», spiega Collier.
Al centro c’è la partecipazione, intesa in senso attivo, in cui ognuno ha un ruolo e dà un contributo.
Perché questo avvenga è necessario che tutti abbiano la possibilità di contribuire e non è così. Ecco allora il primo punto di una agenda politica. Dare a tutti la possibilità di agire per il bene comune. Sommando questa uguaglianza nella partecipazione e l’uguaglianza nella possibilità di contribuire si ottiene una «uguaglianza di condizioni» che si pone, come si diceva, in alternativa al pensiero classico socialista e a quello blairiano.
«Se si deve combattere la solitudine», dice Collier, «è meglio a livello locale. Se occorre far sì che lo Yorkshire riesca a raggiungere Londra, allora le città devono lavorare insieme. Se serve un impegno nazionale, allora tutta la cittadinanza deve trovarsi a cooperare». E la cittadinanza non è un semplice concetto di diritti assicurati con in più l’obbligo di sottostare alla legge. Diventa una sorta di rispetto operoso per raggiungere, tutti insieme, gli obiettivi nazionali stabiliti in modo democratico. Essere cittadini è un impegno, insomma, cui non debbono sfuggire nemmeno coloro che si proclamano «cittadini del mondo».
Insomma, lo Stato, e la politica in generale, non deve concentrarsi sulle lamentele e le compensazioni dei gruppi o delle minoranze (che affondano nel passato, con richieste di risarcimenti e riparazioni che possono arrivare al paradosso «secondo cui i gallesi debbano essere ricompensati per i danni causati dalla Rivoluzione industriale: Sheffield dovrebbe ripagare Swansea?») ma guardare alle ansie comuni, coinvolgendo tutti per affrontarle.
E quali sono queste ansie? Secondo una recente ricerca sulle priorità post-Covid e sulle disuguaglianze, in modo più o meno diverso, tutti i cittadini hanno indicato il problema della disuguaglianza spaziale. Troppo potere per Londra rispetto al resto del Paese. Troppo potere per la politica centrale rispetto alle sue ramificazioni locali. A livello economico, l’impoverimento della provincia rispetto alla crescita della capitale è un dato di fatto.
La rivoluzione, insomma, è una de-centralizzazione che porta a una risposta della politica all’interno delle comunità. Dove tutti i cittadini possono sentirsi titolari di diritti e doveri, in uno spazio condiviso dove la comunicazione non viene impedita dalle opposte polarizzazioni, ma le idee (e quindi il progresso) si muovono con velocità ed efficacia.
Quello di Collier è un appello al Labour inglese, ormai decimato dagli scontri e dall’emorragia di voti. Ma chissà se la politica in senso lato, e le persone (non solo gli elettori) sono pronte per tutto questo.