Dopo 8 anni e 55 vittime francesi, il presidente Emmanuel Macron ha annunciato la fine dell’operazione Barkhane nel Sahel, il ritiro graduale dei suoi soldati e la chiusura delle basi militari francesi nell’area. Ma la decisione di Macron non implica un allontanamento definitivo della Francia dall’Africa, bensì una rimodulazione della sua presenza e una maggiore partecipazione degli alleati internazionali nella lotta al terrorismo in Africa occidentale.
Barkhane, nata nel 2013 sotto la presidenza Hollande in risposta alla richiesta di aiuto del Governo del Mali per arrestare l’avanzata dei jihadisti verso la capitale Bamako, lascerà infatti spazio ad «un’alleanza internazionale che associ gli Stati della regione» e che dovrebbe coinvolgere maggiormente anche l’Unione europea.
La tempistica dell’annuncio di Macron non è causale. Le sue parole arrivano in un momento di particolare tensione nei rapporti tra la Francia e alcuni Stati facenti parte del cosiddetto G5 del Sahel, composto da Mauritania, Mali, Niger, Burkina Faso e Ciad. Nelle settimane precedenti, infatti, la Francia ha sospeso la cooperazione militare con Repubblica Centrafricana (CAR) e Mali, quest’ultimo teatro di un secondo colpo di Stato in un anno e di un’offensiva propagandistica russa che ha coinvolto anche Bangui.
«Nel dicembre 2019 la Francia inizia a denunciare le campagne disinformazione russe in CAR e ne ottiene le prove nel dicembre del 2020, quando Facebook pubblica un rapporto in cui afferma di aver sgominato due network legati a Mosca e al Wagner Group», spiega a Linkiesta Luciano Pollichieni, Research Fellow al think-tank Critic. «Il documento però parla anche di una rete di disinformazione francese nelle stesse aree in cui sono attivi i network russi. Si scopre così che ci sono delle campagne di disinformazione incrociate che sfruttano dei sentimenti anti-francesi già presenti tra la popolazione locale, soprattutto in Mali e Burkina Faso».
Non sorprende allora che il presidente francese, nell’annunciare la fine dell’operazione Barkhane, abbia lanciato un messaggio anche ai suoi alleati africani affermando che la Francia non può «mettere in sicurezza zone che ricadono nel caos e nell’assenza di legge perché gli Stati decidono di non assumersi le loro responsabilità. È impossibile, se non un lavoro senza fine». Un lavoro di cui la Francia non è più disposta a farsi carico da sola.
Macron e l’Africa
La fine dell’operazione Barkhane non giunge certo come un fulmine a ciel sereno. Macron aveva ventilato più volte la possibilità di rimodulare la presenza francese in Africa e in particolar modo nel Sahel, intervenendo su un’operazione ereditata dal suo predecessore e che contraddice il suo modello di relazioni franco-africane.
«Macron cerca fin dall’inizio di esternalizzare l’intervento lungo due assi», spiega Pollichieni. «A livello regionale crea il G5 del Sahel, mentre cerca di convincere l’amministrazione Trump a non opporsi al finanziamento del G5 tramite il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Gli apparati militari americani però non rispondono positivamente alle pressioni della Francia, che riesce comunque ad ottenere 50 milioni di euro dall’Ue».
Il progetto di Macron non dà però i risultati sperati sul piano militare e ha scarsa influenza sul versante politico. «La nuova dottrina della contro-insorgenza francese prevede un intervento unicamente militare, ma la Francia ha dovuto fare i conti con una politica locale in crisi di legittimità e che ha incassato molti soldi ottenendo pochi risultati».
Il deludente risultato dell’operazione francese e il malcontento nei confronti dei Governi sempre più autoritari hanno così spinto i capi tribù locali a siglare autonomamente accordi con gli jihadisti per trovare una soluzione politica ai problemi della regione. In questo modo però è stata superata la linea rossa tratteggiata dalla Francia, secondo cui trattare con i terroristi non è possibile.
Dopo il secondo golpe in Mali, Macron minaccia di ritirare i suoi uomini e decide infine di rimodulare la presenza francese in Africa, mettendo sì fine a Barkhane ma restano nel continente sotto altre forme, per esempio all’interno dell’operazione Takuba. «Resta però da capire che tipo di presenza sarà quella francese nel prossimo futuro», precisa Pollichieni. «Mentre prima la Francia aveva un margine politico vastissimo in Africa, adesso deve fare i conti con Russia e Cina e con il sentimento anti-francese della popolazione locale e dell’élite, che valuta la possibilità di avere altri partner a livello internazionale».
Un’occasione mancata
Anche l’Unione europea è a suo modo presente nel Sahel tramite Takuba, un’operazione militare a guida francese che coinvolge diversi Stati membri Ue come Belgio, Repubblica Ceca, Danimarca, Estonia, Germania, Olanda, Norvegia, Portogallo, Svezia, Grecia e Italia, oltre al Regno Unito. A differenza di Barkhane, compiti principali delle forze speciali saranno quelli di addestramento e accompagnamento dei militari saheliani nelle operazioni di anti-terrorismo.
Lotta contro l’estremismo, smantellamento delle reti di traffici illeciti e controllo delle migrazioni sono tutti obiettivi che i Paesi Ue avrebbero interesse a raggiungere nell’area del Sahel, ma la buona riuscita della missione non è così scontata.
«Londra, che ha curato parte della logistica di Barkhane e Takuba, è adesso ai ferri corti con l’Ue e gli Stati Uniti a causa della Brexit, la Germania continua ad essere scettica nei confronti di queste operazioni e per altre medie potenze l’Africa non è una priorità. La stessa Italia ha un Governo tecnico nato per ben altri scopi e che difficilmente saprebbe giustificare all’opinione pubblica un maggior coinvolgimento nel Sahel».
L’Ue quindi difficilmente potrà avere un ruolo determinante nell’area. Eppure sarebbe stata un’occasione per portare avanti il progetto dell’autonomia strategica fortemente sostenuto dalla Francia. «L’Autonomia strategica passa per capacità e risultati, ma ci sono ancora troppe questioni irrisolte, come per esempio la logistica o la conduzione stessa della missione Takuba. Bisogna anche decidere se dialogare con gli insorti o continuare ad aderire alla logica della war on terror americana, per cui non si tratta con i terroristi. Bisogna capire chi fa cosa e come, a che prezzo», conclude Pollichieni.