Che la pandemia abbia spinto le persone a bere più alcol è un fatto ormai assodato. Solo in Italia, secondo le stime dell’Istituto Superiore di Sanità, c’è stata un’impennata tra il 181% e il 250% nell’home delivery di alcol. Un fenomeno causato dall’isolamento e che ha portato a un consumo che l’Iss definisce «incontrollato» e globale.
Anche negli Stati Uniti – sostiene una ricerca – almeno un quarto degli intervistati ha ammesso di avere bevuto molto di più rispetto al periodo precedente. Il dato delinea un quadro preoccupante, dal momento che i numeri erano cresciuti anche negli anni prima del Covid (a differenza di quanto avviene in Italia, dove tra 2009 e 2019 si era verificata una diminuzione del 7%). In America, tra il 1999 e il 2017 il numero delle morti causate dall’alcol era già raddoppiato.
Si beve di più ma – e questo è il vero problema, come sostiene questo lungo articolo dell’Atlantic – si beve peggio. È una abitudine isolata, a volte solitaria, consumata tra le mura domestiche (soprattutto per le donne) e di rado nei locali. Non si beve per socialità o per degustazione, ma per superare le ansie e lo stress (come la pandemia ha dimostrato) finendo così per peggiorare la situazione generale.
In America la questione è molto delicata. Il rapporto con gli alcolici è sempre stato altalenante: a seconda dei periodi porta ad assumere posizioni molto accomodanti – con conseguente abuso diffuso tra la popolazione – oppure chiusure e condanne, come il periodo del Proibizionismo degli anni ’20. La stessa tendenza del resto, anche se con toni minori, si è affacciata di nuovo intorno agli anni ’80, per conoscere una nuova reazione pro-alcol con il nuovo millennio, forse sulla spinta dello shock emotivo provocato dall’11 settembre.
Ma il vero mistero, continua l’Atlantic, sta proprio nel rapporto, unico in natura, tra l’essere umano e l’alcol. Perché beviamo? E perché, se è vero che la capacità di assorbire l’alcol ha favorito la sopravvivenza della nostra specie, abbiamo continuato a farlo per millenni nonostante gli evidenti danni provocati dal suo consumo?
Secondo alcune ricerche, la mutazione genetica che ha permesso all’uomo di assorbire l’alcol risale a circa 10 milioni di anni fa. In quell’epoca ebbe luogo una importante mutazione climatica, che modificò il paesaggio dell’Africa orientale e provocò l’estinzione di numerose specie. Secondo alcune teorie, in questo panorama di difficoltà, la capacità di potersi nutrire della frutta caduta (e già fermentata) della foresta pluviale costituì un indubbio vantaggio evolutivo, garantendo la sopravvivenza.
Il fatto che, anche oggi, l’essere umano continui ad apprezzare gli alcolici non ci stupisce quanto dovrebbe. È l’opinione di Edward Slingerland, che sul tema ha scritto “Drunk”, un saggio che esplora il ruolo giocato dagli alcolici nella costruzione della società. «Una delle questioni cui gli uomini hanno dedicato la massima attenzione negli scorsi millenni è stato proprio come diventare ubriachi», spiega al magazine americano. Se i criteri sono quelli della salute, è un atteggiamento assurdo: l’alcol danneggia le capacità cognitive e motorie, aumenta l’aggressività e diminuisce la capacità di fuggire di fronte a un predatore. Rovina il fegato, il cervello, provoca disfuzioni e dipendenza. È responsabile di numerose morti precoci. Perché mai si continua a fare? Perché l’evoluzione non ha favorito genotipi astemi?
Slingerland è un esperto di filosofia orientale, in particolare è uno studioso della religiosità. Ma per lui interessarsi agli effetti dell’alcol nella storia umana (tanto da scrivere un libro) non è una stranezza. A suo avviso, ebbrezza e culto mostrano dinamiche simili, a partire dal fatto che, in loro nome, gli umani hanno compiuto imprese faticose e difficili.
Non solo. Entrambi sarebbero – ma è una teoria – alla base dei meccanismi sociali su cui si è costruita la civiltà. La religione, come è intuibile, permette di creare legami più stretti tra i membri di un gruppo, pone obiettivi comuni, apre alla tolleranza e – soprattutto – l’idea di una divinità punitiva riduce la propensione a comportamenti pericolosi o dannosi per la comunità. Dal punto di vista evolutivo, i gruppi umani più religiosi si sono dimostrati più efficaci (grazie alla solidarietà interna ai loro membri) rispetto a quelli non religiosi (se sono esistiti), sopravvivendo di più o inglobandoli.
Lo stesso si può dire per l’alcol. La tesi di Slingerland è che una leggera ebbrezza si sia rivelata decisiva nel rendere i rapporti umani più fluidi, favorendo la conversazione pacifica, migliorando l’umore, la coesistenza e portando ad aumentare la creatività. Non per niente – aggiunge – anche a Google i programmatori sono invitati a bere un bicchiere, sedersi in corridoio e cominciare conversazioni con i colleghi. Questo li aiuta a superare blocchi creativi e migliorare la qualità del loro lavoro.
È da tempo che gli studiosi dell’antichità si mostrano interessati a questa ipotesi. In linea di massima, si era sempre ipotizzato che la civiltà fosse nata insieme alla stanzialità imposta dall’agricoltura, cioè dalla necessità di avere sempre cibo (soprattutto pane) a disposizione. L’alcol, ricavato dalla fermentazione dei cereali, sarebbe stato soltanto una gradita e inattesa conseguenza.
Ora si immagina che le cose siano andate al contrario: più che per mangiare, l’agricoltura veniva incoraggiata proprio per ottenere l’alcol. Sarebbe la ricerca dell’ebbrezza ad avere definito le fondamenta della civiltà umana, più che la necessità di procacciarsi del cibo. A sostegno di questa tesi c’è il sito di Göbekli Tepe, in Turchia. Una sorta di Stonehenge di 10mila anni fa il cui significato è oggetto di dibattito. Secondo gli archeologi non si trattava di un’area abitata, ma pare che funzionasse come luogo di ritrovo per i gruppi e le tribù di cacciatori-raccoglitori, che venivano anche da lontano, in occasioni particolari nelle quali si festeggiava: si mangiava e, soprattutto, si beveva.
Queste riunioni, il luogo stesso (che dovette essere costruito da schiavi e non certo da volontari), i festeggiamenti e il benessere associato al consumo di alcolici aumentavano il senso di comunità tra i partecipanti. Chi li organizzava, poi, si garantiva una certa autorità. Andare incontro a quello che è un tratto necessario e distintivo della specie umana, cioè la capacità di creare legami (a differenza dei nostri cugini scimpanzé), accomunerebbe religione e alcol.
Il problema è che le due situazioni, quella che forse vivevano i nostri antenati a Göbekli Tepe e quella sperimentata nei mesi della pandemia, sono del tutto diverse. In primo luogo per la qualità stessa della bevanda: la loro era molto meno alcolica. Il processo di raffinazione, che ha portato sul mercato un ampio numero di liquori, è molto più recente (risale al XVI secolo). Il quantitativo di alcol puro dei superalcolici è intorno al 40% o al 50%. Una differenza enorme.
In secondo luogo per lo scopo. Si beveva (e si è continuato a lungo, e si continua a bere) per stare meglio, lasciarsi andare un po’, alleggerire le tensioni e migliorare le proprie abilità sociali. Non per niente – e questo è il punto tre – si beveva in compagnia. Anzi, ci si radunava apposta dopo chilometri per bere insieme. Questi tre elementi, cioè la qualità dell’alcol, la sua funzione di lubrificante sociale e la compagnia presente sono elementi decisivi. Bere per dimenticare le ansie, magari da soli, e magari bevande ad alta gradazione alcolica è già un atto di natura diversa.
È su questo fenomeno in particolare – molto diffuso nel XIX secolo – che si concentravano le campagne per l’astinenza. Non si predicava, come si pensa oggi, un rifiuto completo degli alcolici, ma si raccomandava piuttosto un uso moderato. In questo senso, continua Slingerland, le abitudini dell’Europa del Sud sono da prendere a esempio. Non si beve per ubriacarsi, ma per migliorare i momenti insieme. E nonostante l’alto consumo di alcolici, l’Italia è uno dei Paesi con il più basso tasso di alcolismo del mondo. La questione, insomma, non è sul cosa si fa ma sul come.
Resta allora il problema di chi, all’affacciarsi delle riaperture, deve dimenticare le abitudini prese durante la pandemia, migliorare il proprio rapporto con l’alcol e ridefinire le occasioni in cui lo si utilizza. Per evitare che il pendolo americano si sposti di nuovo – stavolta verso una chiusura in site puritano, con proibizioni e limitazioni – un buon modello è proprio quello di Göbekli Tepe. In compagnia, per stare bene, con bassa gradazione.