Hisham Matar è uno scrittore intenso, forte e struggente, capace di lavorare sull’autobiografia familiare collocandola dentro la grande Storia che ha segnato i cambiamenti del mondo. Nel 2016 ha vinto il Pulitzer con “Il ritorno”, ovvero la ricerca di quel padre fatto scomparire dal regime di Gheddafi. Intellettuale appassionato a tutto ciò che è bellezza, l’arte in particolare, Matar vive a Londra da molti anni.
Prima del “blocco” editoriale ,Einaudi ha pubblicato “Un punto di approdo”, agile volume illustrato in cui lo scrittore racconta il suo soggiorno a Siena per mantenere quella promessa che, diciannovenne, fece a se stesso, di studiare la pittura del Trecento. In effetti il titolo originale “A month in Siena” sarebbe stato più efficace e diretto: nella città toscana Matar arriva accompagnato dalla moglie Diana che poi lo lascia solo come voleva, a contemplare la Maestà di Duccio, gli affreschi del Buono e del Cattivo Governo di Ambrogio Lorenzetti nel Palazzo Pubblico, nelle sale della Pinacoteca Nazionale. E in giro per la città, evitando gli incontri, lasciando liberi i pensieri, esercitando l’interpretazione di tanti capolavori.
Quando si ha più tempo per pensare, si affonda meglio tra le pagine degli altri andando a cercare qualcosa di se stessi. Non è il caso di raccontare i fatti propri – sono legato a Siena per questioni universitarie e ricordo come fosse ieri l’approccio del mio sguardo a quella straordinaria stagione artistica. A un certo punto il breve memoir cambia strada quando Matar con la precisione dello storico ripercorre i fatti del 1348, dieci anni dopo la realizzazione dell’affresco di Lorenzetti. «Giunsero voci provenienti dalle steppe eurasiatiche, storie di orribili sofferenze e di morte, di interi distretti spariti in una manciata di giorni. Le cronache erano incredibili quanto impossibili da ignorare. Parlavano di persone fino a un attimo prima in perfetta salute che morivano inspiegabilmente».
Un contagio che si diffuse rapidamente, senza che se ne conoscesse né la causa né il rimedio ma che molti interpretarono come «la fine del tempo». La Peste Nera si spostava velocemente, forse partita da un parassita, oppure dai topi, dall’Oriente al Nordafrica fino all’Europa. Diversi storici del medioevo testimoniarono gli sconvolgimenti sulla popolazione – «l’intero mondo cambiò»- e su come artisti e scrittori interpretarono la pestilenza. Ai tempi di Lorenzetti in molti fuggirono verso le campagne, ma lui e la sua famiglia restarono a Siena. Ci fu un gran bisogno di capri espiatori e la necessità liberarsi dai defunti.
Ricorda Matar che «nei successivi quattro, cinque secoli la Peste Nera continuò a risollevare periodicamente la testa in varie aree del mondo», ma quello del 1348 resta l’evento più devastante della storia umana. «Quello che ha mietuto il più alto numero di vittime e ha plasmato il nostro atteggiamento verso la morte e il morire e, di conseguenza, verso la vita e il vivere, Il Rinascimento e il Barocco fiorirono nella sua ombra. Michelangelo, Rembrandt e Vermeer ne furono più volte minacciati…».
Cita Tintoretto, Van Dyck, Poussin, Rodin, Beckett, «la morte era il prezzo», e soprattutto Caravaggio, «nessun altro artista seppe padroneggiare le conseguenze psicologiche della Peste Nera, usarle con altrettanto profitto e inventiva, e con così implacabile energia». Insomma, «dopo il 1348 l’arte cambiò perché era cambiato l’uomo». Chiudo un libro, un gioiello, con un diverso atteggiamento e mi spiego il titolo Un punto di approdo, eccone uno in più e di tanta forza.