Serve per allargare le conoscenze, scoprire nuove opportunità e, magari, trovare (o inventare) nuovi lavori. La rete, intesa come network di contatti, è una delle risorse più preziose degli esseri umani. Stabilire legami fa parte della nostra natura, di tutti: definisce parentele, amicizie, prossimità. E in epoche più moderne, anche opportunità di carriera. Per questo un libro come “Link” (Egea), scritto da Andrea Attanà, umanista con la passione dell’informatica che ha lavorato per anni a LinkedIn, aiuta a sgomberare il campo da tante false convinzioni e propone riflessioni significative sul senso della rete di contatti di ciascuno – e del modo migliore per impiegarla in ambito professionale.
«Tutto è cominciato quando lavoravo a LinkedIn. Un social network di cui si sapeva poco e su cui mi facevano diverse domande», spiega Attanà a Linkiesta. «Il libro è il risultato di tutte le cose che mi hanno chiesto e di tutte le risposte che ho dato».
Come prima cosa, per fare networking «non è necessario essere estroversi». È una cosa che tutti possono fare e che prescinde dal carattere di ciascuno. Con gli strumenti digitali, poi, anche i più timidi hanno più mezzi a disposizione per stabilire connessioni e presentarsi. «Avere un buon network è la capacità di contare su un certo numero di persone che possono essere un aiuto a livello professionale». Non è facile: occorre avere costruito legami basati su «fiducia e “usabilità”: il contatto deve essere utile, funzionare cioè da chiave inglese. Come io devo funzionare da chiave inglese per lui». Il concetto può sembrare anche troppo freddo ed «è una cosa che molti non riescono a superare. Ma se io ho un contatto e questo, quando gli scrivo, non mi risponde, io lo cancello». Non per ripicca, sia chiaro, ma per criterio: la funzionalità prima di tutto. Costruire una rete professionale richiede pragmatismo e serietà. Ci vuole anche tempo e una buona dose di impegno.
«La reputazione è una competenza», scrive nel libro. Ed è un punto importante: sapersi creare una buona nomea non è un risultato che si ottiene per caso, occorre un metodo e una certa chiarezza interiore. «Bisogna avere chiaro quale tipo di persona voglio aggiungere, e quali sono quelli che possono darmi una mano. Non sempre coincidono, anzi». Se il network è un lavoro, «non deve però diventare un’ossessione. Non si va a caccia di contatti, ma li si coltiva. Con tempo, pazienza, cura e ascolto». Quello che è importante è che l’insieme sia coerente con i propri obiettivi.
«Adesso il criterio più in voga nei social network è di tipo estetico. I ragazzi vogliono vantarsi dei vip con cui sono collegati, i miei figli esibiscono il loro link con Malika Ayane, per capirsi. Ma a livello professionale conta il contrario: non importa se sei collegato a un vip, importa quanto questa persona sia disposta a interagire e darti una mano». Insomma, essere amico di Barack Obama, se questo non sa nemmeno chi tu sia, non porta da nessuna parte.
Abbandonare la cultura del follower è difficile, «ma in ambito professionale diventa necessario». Anche in un periodo come quello attuale, dove le relazioni hanno conosciuto, a causa della pandemia, una evoluzione ulteriore: quello di essere giocate, molto spesso, solo online. «Negli ultimi mesi sono capitate cose finora impensabili: ci sono ragazzi che hanno sostenuto colloqui e ottenuto il primo posto di lavoro della loro vita solo online. È una cosa inaudita, se si pensa che spesso il lavoro è ciò che ti cambia, ti rivoluziona la vita».
Non è chiaro se, visto quanto è successo, si tornerà ai ritmi e alle abitudini del mondo pre-pandemico. «Quello che ho potuto notare è che, anche se progetti e collaborazioni possono essere gestite del tutto online, alla fine viene sempre chiesto, per chiudere un accordo, un incontro finale di persone. Quasi come se fosse una forma di autenticazione».